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Gaza City accerchiata. La mossa di Israele mentre Blinken torna nel Golfo

L’attesa operazione terrestre di Tel Aviv si è messa in moto negli scorsi giorni, anche se in modo meno esteso di quanto preventivato. Ma gli obiettivi permangono, mentre Washington lancia un nuovo forcing diplomatico guidato dal segretario di Stato Blinken

Durante il passato fine settimana, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha dichiarato che il paese da lui guidato è entrato nella “seconda fase” della sua guerra contro Hamas nella striscia di Gaza, caratterizzata da un intervento delle truppe di terra delle Israeli Defence Forces (Idf) all’interno della striscia, in seguito alle tre settimane di pesanti bombardamenti aerei portati avanti nella “prima fase”. Ora le forze israeliane dichiarano di aver accerchiato Gaza City.

Ma anziché una vera e propria invasione di terra portata avanti da massicci raggruppamenti di forze, al momento le operazioni delle Idf sembrano rassomigliare più a veloci e rapide puntate verso singoli obiettivi. Per ostacolare le colonne di forze israeliane impegnate a penetrare nella striscia, i miliziani di Hamas hanno sfruttato la loro complessa rete di tunnel sotterranei per portare avanti piccoli attacchi mordi e fuggi contro i soldati di Tel Aviv.

Nonostante le incursioni avvengano in tutto il territorio, la maggior parte di esse si concentra nella porzione settentrionale della Striscia, dove secondo il portavoce delle Idf si trova il “centro di gravità di Hamas”, e dove si deve “dare la caccia ai loro comandanti, e attaccare le loro infrastrutture”.  Ma anche inficiare le sue capacità militari. Ridurre e idealmente eliminare la capacità di Hamas di produrre e lanciare missili, razzi e droni armati rimane una delle priorità dell’azione militare.

Le motivazioni dietro alla scelta di mettere in atto un’operazione più contenuta rispetto ad un’invasione su larga scala sono molteplici. La prima è quella di evitare perdite troppo significative: Gaza rappresenta una vera e propria roccaforte per Hamas, che ha avuto anni di tempo per preparare al suo interno un complesso sistema di postazioni difensive; mentre in questo modo le Idf possono impiegare reparti appositamente addestrati con un equipaggiamento adatto per stanare gli avversari dalle loro posizioni, un attacco estensivo avrebbe impedito di realizzare queste dinamiche, esponendo al nemico un numero maggiore di soldati “generici”, aumentando di conseguenza il numero delle perdite. Parallelamente, questo approccio limita anche i danni collaterali, che rischiano di far perdere ad Israele il forte sostegno internazionale di cui gode al momento. E diminuisce anche la possibilità che gli ostaggi presi da Hamas il 7 ottobre rimangano coinvolti negli scontri a fuoco, mettendo a rischio la loro incolumità.

Inoltre, questo percorso riduce le possibilità di escalation con altri attori regionali come l’Iran ed Hezbollah. Da una parte la sua minore invasività fornisce meno appiglio a potenze statali e non-statali straniere per giustificare un intervento armato; dall’altra, lo schieramento di minori quantità di forze nell’area di Gaza fa sì che Tel Aviv disponga di una riserva strategica più grande da utilizzare in caso di attacco su altri fronti da parte degli attori già menzionati, riducendo le possibilità di questi ultimi di riportare una vittoria militare.

Mentre i combattimenti continuano, non si ferma però l’azione diplomatica. Tra poche ore il Sottosegretario di Stato statunitense Antony Blinken tornerà in Israele, a poche settimane dalla sua precedente visita, per incontrarsi con Netanyahu e altri funzionari del governo di Tel Aviv. Mentre pochi giorni fa è stato il ministro della Difesa saudita Khalid bin Salman Al Saud a recarsi a Washington per discutere con Jake Sullivan, tra le altre cose, del conflitto in corso in Medio Oriente e di come evitare un allargamento dello stesso.


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