Le restrizioni tech di Washington sembravano non scalfire Pechino, capace di trovare altrove gli strumenti mancanti e di creare alcuni anche molto potenti. Eppure, alcune mosse del Dragone dimostrerebbero le difficoltà che dovrà affrontare, a cominciare dalla costruzione di una produzione su scala globale
Mettiamo subito le mani avanti: non abbiamo scritto falsità. Nonostante le restrizioni severe imposte dagli Stati Uniti sull’export tecnologico, la Cina sta comunque riuscendo a resistere e a sviluppare nuovi strumenti. Lo fa prendendo quello che le manca da terzi, anche dagli occidentali, e facendo affidamento sulla sua capacità di resilienza e sulle scorte di tecnologia americana che le sono rimaste. Il Mate 60 Pro lanciato dalla Huawei era l’esempio perfetto per dimostrare a tutti, Washington in primis, come per sconfiggerla ci sarebbe voluto tanto altro. Insomma, la Cina prova a schivare il colpo e a reagire come può. Sebbene tutto questo sia vero, ci sono delle sottigliezze che metterebbero però in mostra le difficoltà del gigante asiatico.
Lo abbiamo scritto più volte: molto del successo delle sue aziende è dovuto al materiale che arrivava da ovest ma che, da ormai qualche tempo, giunge sempre meno. L’ultima mazzata da parte dell’amministrazione di Joe Biden è stata comunicata il mese scorso, con una nuova lista di strumenti che non possono essere spediti. Questi erano soprattutto chip molto avanzati, come quelli da 7nm, e riguardavano aziende enormi, tra cui Nvidia. Semiconduttori come A100, A800, H100, H800, L40, L40S e RTX 4090 non sarebbero più potuti essere venduti a società cinesi, causando un danno anche per i produttori americani.
Tuttavia, prima che le nuove misure entrassero in vigore (non per Nvidia, per cui lo saranno fin da subito), la Cina sembra che si sia affrettata a comprarne quanti più possibili. Rispetto a un anno fa, le importazioni dai Paesi Bassi sono aumentate di quasi il 30%, mentre tra giugno e luglio quelle riguardanti strumenti per la produzione di semiconduttori hanno segnato una crescita del 70%. E questo è già un campanello d’allarme importante per capire le paure del Dragone.
L’obiettivo è sviluppare una propria produzione prima che le riserve di chip finiscono ma, come ha precisato a Bloomberg il ceo della start-up cinese 01.AI, Kai-Fu Lee, che ha un passato alle spalel in Apple e Microsoft, “non è chiaro se la Cina riuscirà in un anno e mezzo a produrre chip equivalenti” a quelle made in Usa. E lo dice con cognizione di causa, dato che la sua azienda è una di quelle che ha svuotato i magazzini di Nvidia, fin quando era possibile.
Ma andiamo oltre. Quello che può apparire come un successo di Pechino, il sistema su chip Kirin 9000, in realtà è solamente una buona notizia. La Cina è in grado di poter camminare da sé, grazie a HiSilicon, ramo produttivo di proprietà di Huawei, l’unica insieme a Qualcomm (Stati Uniti), MediaTek (Taiwan) e Samsung (Corea del Sud) a saper sviluppare un sistema su chip competitivo a livello mondiale, e alla Semiconductor Manufacturing International Corportation (SMIC), tanto per citare due grandi realtà. Ma un conto è mettere una pezza a un buco, un altro è creare una macchina produttiva su larga scala.
Anche se il Mate 60 Pro contiene chip molto piccoli, inferiori persino anche a quelli che la Cina era in grado di produrre, rimane un caso isolato che non è detto possa essere replicato. Non almeno nella quantità che si augurerebbe il governo cinese, che per finanziare la propria industria ha sborsato poco più di 45 miliardi di dollari. Anche perché, scoperto il trucco, gli Stati Uniti starebbero tentando di ricoprire i vuoti in cui la Cina si sta infilando, impedendo ai suoi produttori di venderle i loro strumenti e stringendo le maglie sui controlli.
Da tenere dentro questo discorso c’è anche quello che viene chiamato “tasso di successo” del processo utilizzato per la creazione dei chip, la litografia Deep Ultraviolet (Duv). Sostanzialmente, si tratta del numero di semiconduttori che funzionano così come ci si aspettava. Se il tasso delle rivali di Huawei supera il 90%, quello dell’azienda cinese arriva a meno della metà (40%). I problemi dunque esistono, ma non vengono portati in superficie.
L’idea che si è costruito Defense One è che si tratti di una mossa studiata a tavolino. E quindi, di un’operazione di propaganda per mettere la polvere sotto il tappeto. L’annuncio del nuovo Mate 60 Pro di Huawei è infatti arrivato proprio quando la Casa Bianca ha rilasciato una nuova lista di restrizioni, cercando così di sconfessare le paure che ruotano attorno al futuro tecnologico cinese e dando prova della sua capacità di resistere agli urti esterni. Al contrario, Pechino sarebbe in grado di superare gli ostacoli che le vengono messi sulla strada e i nuovi prodotti lo testimonierebbero. Ma, a detta della rivista, sarebbero specchi per le allodole: uno smartphone dice poco o nulla se non è seguito da altri prodotti innovativi. La Cina dovrà fare molto di più per dimostrare che i limiti di Biden non le fanno male.