Conversazione con l’analista dell’Istituto affari internazionali, secondo cui “il segnale politico da parte del Parlamento c’è stato, ma non è arrivato con la forza che sarebbe necessaria poi per smuovere veramente le acque”
Il segnale politico c’è stato, ma il Ppe è spaccato, spiega a Formiche.net Nicoletta Pirozzi, responsabile del programma “Ue, politica e istituzioni” e responsabile delle relazioni istituzionali dello Iai, che analizza il voto parlamentare nell’euroemiciclo contro l’unanimità come occasione di riformare complessivamente l’Ue e i suoi meccanismi. “L’idea è che ci sia un voto al prossimo vertice di dicembre, però anche lì la strada è tutta in salita”.
Superare lo scoglio dell’unanimità e dando vita ad un un nuovo assetto istituzionale per l’Ue è un traguardo raggiungibile?
Sicuramente l’iniziativa del Parlamento europeo va nella direzione di uno snellimento delle procedure europee dal punto di vista decisionale ed è in linea con quello che avevano detto i cittadini europei nella Conferenza sul futuro dell’Europa. In quella circostanza era stato fatto un esercizio di democrazia partecipativa: un segnale importante a livello europeo.
Come giudicare il voto variegato?
In realtà il voto ha visto però una spaccatura di fatto tra i parlamentari europei tant’è vero che la proposta di riforma è passata con una maggioranza piuttosto esigua. Quindi il segnale politico da parte del Parlamento c’è stato, ma non è arrivato con la forza che sarebbe necessaria poi per smuovere veramente le acque. In Europa, in particolare, c’è stata questa spaccatura all’interno del Ppe sulle questioni di riforma del voto a maggioranza qualificata e anche questo è un segnale importante in vista della prossima legislatura.
Perché?
Perché comunque ci si aspetta che i popolari saranno di nuovo la prima forza a livello europeo e quindi mancherebbe quella trazione nel Parlamento per portare avanti queste ipotesi di riforma in futuro.
Adesso cosa accadrà?
La palla passa a i rappresentanti dei governi nazionali, quindi sarà la presidenza spagnola che dovrà poi calendarizzare il voto in Consiglio e poi al Consiglio europeo. L’idea è che ci sia un voto al prossimo vertice di dicembre, però anche lì la strada è tutta in salita.
Per quale ragione?
Perché è vero che serve una maggioranza semplice al Consiglio europeo per lanciare questa convenzione di riforma dei trattati, però sappiamo che molti sono radicalmente contrari a una riforma di questo tipo.
Il voto è comunque un segno incoraggiante anche alla luce delle parole pronunciate dal presidente Mario Draghi qualche settimana fa sul futuro dell’Ue?
Sicuramente è un segnale incoraggiante a fare qualcosa per l’Unione europea di fronte alle nuove sfide che stiamo affrontando in questo periodo, soprattutto la guerra all’Ucraina ma anche le sfide di riforma interna in vista del futuro allargamento: mi riferisco a Ucraina e Moldova. Molti leader europei hanno detto sì alle candidature, ma prima è importante avere in Europa delle regole decisionali che ci permettano di non rimanere appesi ai veti dell’Orban di turno per intenderci. E quindi è arrivato l’intervento di Draghi, ma anche la Germania si è detta molto favorevole a questo tipo di riforme e in particolare sta facendo una campagna politica importante per il passaggio delle procedure decisionali alla maggioranza qualificata. Per cui il clima è a favore di questo tipo di riforma, perché ci si rende conto che già così è difficile funzionare, figuriamoci a 35 Stati membri.
Chi e perché blocca questo processo riformatore?
Ci sono posizioni molto diverse in Europa, alcuni Stati bloccano questo processo di riforma perché hanno paura che si realizzi uno scenario di Europa a due velocità, in cui ci sono degli Stati di serie A degli Stati di serie B. Quindi soprattutto i Paesi piccoli hanno paura di questo tipo di riforme. Se anche si dovesse passare, per esempio, alla maggioranza qualificata, qualcuno teme che poi la voce degli stati piccoli sarà di fatto ignorata in Europa perché i grandi potranno andare avanti anche senza di loro. Molti invece hanno una posizione di principio contraria a una riforma in senso più federale più sovranazionale dell’Unione europea. Mi riferisco all’Ungheria di Orban ma anche della Polonia di Tusk che, nonostante sia uno degli europeisti, in ogni caso vuole mantenere un ruolo molto forte degli stati membri in Europa. Anche il governo italiano non è del tutto favorevole a un passaggio sovranazionale in Europa.
Alla luce del progetto di alleanza tra Ppe e Ecr ci sarà la fine delle larghe intese di merkeliana impostazione e l’inizio di una Commissione politica?
Il progetto politico di “centrodestra” europeo non è più un mistero, ma molto dipenderà dai numeri delle prossime elezioni europee perché ovviamente senza una maggioranza in Parlamento si potrà fare poco. Però è vero che c’è questa spinta a rivedere le maggioranze all’interno del Parlamento e questo poi si rifletterà inevitabilmente anche nella composizione della futura Commissione. Quindi la prospettiva è quella possibile di un cambio degli equilibri in Europa e questo porterà tutta una serie di conseguenze per quanto riguarda, sia le ipotesi di riforma, ma anche le politiche dell’Unione europea stessa, perché potrebbe venir meno la spinta verso gli aspetti più sociali in Europa che sono sempre stati portati avanti tradizionalmente dalle forze progressiste.