L’amministrazione Biden deve gestire la crisi mediorientale tra richieste di “pausa” dei combattimenti, spin-off militari contro i propri interessi, lamentele e criticità tra partner e alleati, interferenze degli attori rivali e pressioni dalle istituzioni finanziarie
Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu dice che chiedere un cessate il fuoco adesso è chiedere a Israele di “arrendersi”. E questo “non accadrà mai”. Niente pausa alla penetrazione terrestre nella Striscia. Gaza City è circondata, e probabilmente sta iniziando la fase più critica dell’operazione terrestre: la guerriglia urbana. E il rischio è che Hezbollah decida di allargare le operazioni dal Libano.
Diversi Paesi e organizzazioni (tra cui l’Onu) si sono mobilitati per chiedere lo stop ai combattimenti, per la maggioranza inorriditi dagli implacabili bombardamenti che hanno portato a un crescente bilancio delle vittime palestinesi nella Striscia di Gaza assediata, in parte perché hanno fiutato l’opportunità di usare la situazione in questo senso e attaccare l’Occidente che sostiene Israele.
In questo contesto complesso, gli Stati Uniti sono il player più sensibilizzato. Gli Usa stanno dimostrando accortezza. Il presidente Joe Biden durante un comizio a Minneapolis è stato sollecitato da una rabbina di sinistra che gli chiesto di muoversi per un cessate, e lui ha risposto di credere che sia “il momento di una pausa” — che potrebbe facilitare la liberazione degli ostaggi.
Due settimane fa, gli Stati Uniti hanno posto il veto a risoluzioni del Consiglio di sicurezza onusiano che chiedono una “pausa umanitaria”, perché formulate in modo troppo blando sulle atroci responsabilità di Hamas (che ha attaccato e provocato la morte di 1400 israeliani il 7 ottobre). Ora Biden e i suoi uomini sembrano più disposti a usare quel tipo di linguaggio indipendentemente dalla devastazione che ha avuto luogo nei giorni intermedi (al momento, le autorità di Gaza dicono che il bilancio delle vittime è di 9.061, inclusi più di 3.700 bambini: non sempre scevre dall’usare i dati a proprio beneficio, anche se in passato le valutazioni graziesi sono state confermate da indagini indipendenti dell’Onu).
Washington ha mobilitato le forze speciali militari (servisse aiuto in qualche blitz) e diplomatiche. Da un lato i reparti di élite possono essere fondamentali — anche pensando alle costanti pressioni militari che le forze occidentali stanno subendo nella regione per opera del network di milizie collegate ai Pasdaran (che ha colpito almeno due dozzine di volte le basi americane in queste settimane). Dall’altro si cercano spazi per soluzioni negoziate.
Narrazioni e consenso
Il segretario di Stato Antony Blinken è partito per un nuovo tour mediorientale e nuove discussioni dirette con il governo Netanyahu. Washington vuole sapere come verrà gestito il dopo: una volta che la Striscia di Gaza verrà liberata dalla giunta militarista di Hamas, anche se non è possibile valutare quando, chi prenderà il suo posto? Per l’amministrazione Biden è questo il momento di affrontare certi temi.
Dipendentemente dall’affidabilità delle risposte che riceverà, valuterà l’investimento su Israele — e non semplicemente sull’attuale esecutivo, ma su ciò che sarà (visto che i contatti per il dopo Netanyahu sembrano Gus partiti). Per gli Stati Uniti c’è molto in ballo, perché le campagne di disinformazione che cercano di sfruttare la situazione in chiave anti-occidentale partono proprio dal ruolo pro-israeliano di Washington. Si tratta di attività complesse, tanto antisemite quanto islamofobe, architettate dalle misure attive russe, cinesi, iraniane, impegnate in un’infowar costante che mira a disarticolare il blocco occidentale, partendo dagli Usa.
C’è un tema di consenso, mentre la campagna per Usa2024 è già avviata. Un sondaggio condotto da John Zogby Strategies tra gli arabi americani per conto dell’Arab America Institute martedì ha restituito dati sorprendenti: per la prima volta dall’inizio della ripetizione della prospezione nel 1997, la maggioranza degli arabi americani non si identifica come democratica. Il sostegno a Biden e ai Dems è crollato dal 7 ottobre, per via dell’incessante sostegno dell’amministrazione a Israele e al suo (legittimo, inequivocabile) diritto difendersi. Il consenso degli arabi americani per Biden è sceso a uno straordinario 17% — per confronto, nell’anno elettorale 2020 era al 59. Non è banale se si considera la concentrazione di elettorato arabo in swing state come Michigan, Pennsylvania e Ohio, spiega il Washington Post.
Non è solo una questione problematica a livello morale, ma lo sta diventando a livello politico. E oltre. Tra gli appelli per mettere in pausa i combattimenti ce n’è uno che rischia di essere più delicato degli altri: quello dell’Editorial Board del Financial Times, che martedì 31 ottobre ha diffuso la posizione del giornale. “Israele, un Paese nato in un conflitto e con un profondo senso di vulnerabilità, ha tutto il diritto di difendere i suoi cittadini e di rispondere all’assalto del gruppo militante islamico. […] Ma la punizione collettiva di Israele nei confronti dei 2,3 milioni di persone intrappolate a Gaza, di cui quasi la metà sono bambini, deve cessare”.
Messaggio per Gerusalemme
L’FT non è un giornale qualunque. Ed è probabile che Biden, chiamato direttamente in causa dal quotidiano londinese, abbia letto le pagine rosa della Bibbia della finanza inglese con estrema attenzione. E forse preoccupazione: da lì infatti passano indicazioni, direzioni, decisioni. È senza dubbio il più influente media al mondo, l’unico tendenzialmente in grado di veicolare mosse e scelte di privati e istituzioni.
“Gli alleati di Israele devono fare pressione sul governo di Netanyahu affinché permetta l’ingresso di maggiori aiuti a Gaza e tolga l’assedio. Devono anche indirizzare Israele verso un piano più plausibile per annullare la minaccia posta da Hamas, che non porti Israele e la regione nel baratro”, scrive. E ancora: “Il 7 ottobre Hamas ha inferto un colpo catastrofico a Israele. Israele deve ora evitare di cadere nella trappola di permettere ai militanti, che considerano ogni vittima palestinese come un martire della loro causa, di capitalizzare questo risultato. Quanto maggiore è la sofferenza dei civili palestinesi, tanto più è probabile che Israele perda il sostegno dell’Occidente, facendo infuriare ulteriormente il mondo arabo e musulmano”.
Il messaggio che l’Editorial Board fa uscire diventa complesso per Netanyahu. L’FT sta parlando ai suoi interlocutori, la business community globale: gli sta dicendo che la continuazione della guerra è problematica. In una fase in cui il valore della sostenibilità (che sia energetica o etica e morale) guida le dinamiche economiche e finanziarie, quello che esce è un’indicazione pesante contro Israele — e indirettamente riguarda chi lo sostiene.
L’FT sta dicendo a quei suoi lettori che la continuazione della guerra complica i rapporti con Israele. Significa che la complicazione tocca la capacità di assorbire investimenti, sia a livello pratico (è prudente investire quando c’è una guerra?) sia a livello più filosofico o ideologico. E per uno start-up country come Israele non è positivo. Washington osserva con attenzione, gli Usa si stanno dimostrando l’unica potenza in grado di assumersi responsabilità diplomatiche in certe situazioni.
Prima di intraprendere il nuovo viaggio in Medio Oriente, Blinken ha espresso le sue preoccupazioni per la perdita di vite palestinesi: “Quando vedo un bambino palestinese, un ragazzo, una ragazza tirato fuori dalle macerie di un edificio crollato, questo mi colpisce nello stomaco tanto quanto vedere un bambino in Israele o altrove”. Ma gli alleati americani nella regione si aspettano di più (e l’attivissimo ministro degli Esteri giordano lo ha messo nero su bianco: faremo pressioni per far fermare Israele). Arrivano anche i mercati?