Slittano i principali indici del greggio dopo l’aumento delle riserve statunitensi e i segnali di rallentamento da parte del gigante asiatico. L’offerta di petrolio dovrebbe rimanere robusta a fronte di una domanda in flessione. Sembra scongiurato lo shock petrolifero – ma i prezzi sono tutt’altro che bassi
Niente shock petrolifero, almeno per il momento, nonostante la crisi in Medio Oriente. Anzi, nelle scorse ore i prezzi del petrolio sono crollate del 4%, segnando il nadir degli ultimi tre mesi. L’indice globale Brent ha sfiorato gli 80 dollari al barile prima di assestarsi agli 81, un netto calo rispetto al picco di settembre di 94, mentre quello statunitense West Texas ha segnato 76. Diversi fattori principali hanno appesantito gli indici, ma il filo rosso sembra essere la prospettiva di un’offerta robusta e una domanda anemica.
Martedì, dopo che Mosca e Riyadh hanno confermato che avrebbero mantenuto i limiti alla produzione, Washington ha annunciato che le sue scorte sono aumentate di quasi 12 milioni di barili. Il tutto a fronte di un calo della domanda annuale interna – meno 300.000 barili, dopo aver previsto un aumento di 100.000 solo il mese scorso – che secondo le proiezioni statunitensi continuerà anche nel 2024. In più, grazie all’alleggerimento delle sanzioni Usa sul Venezuela, ci si aspetta che Caracas passi dal produrre meno di 200.000 barili al giorno a una media di 900.000 entro la fine del 2024.
È anche vero che secondo gli analisti di Goldman Sachs, il taglio dell’offerta promesso dai Paesi Opec non è stato tanto consistente quanto promesso. I sei avrebbero dovuto diminuire la produzione per un totale complessivo di 2 milioni di barili al giorno, stando alla decisione dello scorso aprile, ma il numero reale sembra essere una diminuzione di solo 600.000 barili al giorno. A ogni modo, l’Opec si aspetta che la crescita dell’economia globale sosterrà la domanda di carburante nel prossimo futuro.
Poi ci sono i dati usciti martedì dalla Cina, il maggior importatore di petrolio al mondo, la cui domanda interna sta risentendo delle avversità economiche. Le importazioni cinesi di greggio sono cresciute a ottobre, ma le esportazioni totali di beni e servizi si sono contratte a un ritmo più rapido del previsto, alimentando i timori di un indebolimento della domanda globale. In più, come rileva Reuters, la ripresa del dollaro sta rendendo il petrolio più costoso per i detentori di altre valute.
Nel complesso sembra che il rischio di shock energetico, paventato (tra gli altri) dal presidente del Consiglio Giorgia Meloni all’indomani dell’attacco di Hamas contro Israele, si sia ridimensionato. Secondo gli osservatori del settore, i mercati sono sempre meno preoccupati dal rischio di allargamento del conflitto – specie dopo che Hezbollah non ha alzato i toni – e sempre più concentrati sulle “solite” dinamiche di mercato.
Tuttavia, come spiegava l’esperto Gianclaudio Torlizzi su queste colonne, la strategia dei produttori di petrolio non è quella di provocare un picco che finirebbe per essere vanificato dal rallentamento delle economie occidentali: preferiscono mantenere una certa tensione nei mercati per tenere alto il prezzo sul lungo termine, per capitalizzare al massimo in questo periodo di transizione. E sebbene siano prossimi ai minimi di quest’anno, i prezzi del greggio restano comunque molto superiori al periodo pre-pandemia.