Il silenzio degli alleati e le scelte comunicative attorno alla riforma sono scelte più tattiche che strategiche, che inducono a un certo scetticismo sull’esito finale della riforma costituzionale
A una settimana di distanza dall’approvazione in Consiglio dei ministri di quella che Giorgia Meloni, presidente del Consiglio, ha definito “la madre di tutte le riforme”, due fatti balzano agli occhi. Il primo è il silenzio degli alleati. Se c’è un elemento programmatico che da trent’anni a questa parte unisce i partiti del centrodestra è il presidenzialismo: possibile che né Matteo Salvini né Antonio Tajani sentano l’esigenza di non lasciare alla sola leader di Fratelli d’Italia il merito di aver finalmente varato tale, storica, novità? Possibile. E non basta a spiegare questo inusuale silenzio la consapevolezza di essersi piegati a un livello di mediazione tale da snaturare il senso della riforma, che come è noto non prevede l’elezione diretta del presidente della Repubblica (come era invece scritto nel programma elettorale del centrodestra) ma di un presidente del Consiglio sostanzialmente privo di poteri “presidenziali”. È come se i due alleati maggiori di Meloni avessero fiutato il possibile fallimento referendario e si fossero tacitamente accordati per lasciare che ad affrontare politicamente tale prova fosse la sola Meloni, sotto sotto sperando che la perda.
Il secondo fatto che balza agli occhi è il canone retorico scelto da Meloni per celebrare quella che, nella realtà, è diventata la “sua” riforma. Per trent’anni si è detto che occorre eleggere direttamente il capo del governo e conferirgli i poteri del caso per dare stabilità ed efficacia agli esecutivi. La tesi, però, è scomparsa dai radar. E non sembra si tratti di onestà intellettuale, essendo, come abbiamo detto, evidente che, per come è stata congegnata, l’elezione diretta del presidente del Consiglio non servirà a raggiungere lo scopo dichiarato. Meloni ha invece scelto di giustificare la riforma in chiave anti tecnocratica, valorizzandone un aspetto tutto sommato marginale. Ovvero il fatto che qualora il presidente del Consiglio eletto direttamente dai cittadini fosse costretto alle dimissioni, a sostituirlo potrebbe essere solo un parlamentare di maggioranza in carica.
“Voi cosa volete fare? Volete contare e decidere o stare a guardare mentre i partiti decidono per voi?”, ha detto Meloni agli italiani nel videomessaggio di due giorni fa. Il riferimento ai governi Monti e Draghi era implicito, l’approccio demagogico volto a delegittimare le scelte politiche dei partiti in quanto strumento della volontà popolare era invece esplicito. Demagogia a parte, la scelta di comunicazione indica l’abbandono della retorica dell’uomo forte a capo governo a beneficio di un’originale retorica della volontà suprema del corpo elettorale.
Due anomalie; due scelte più tattiche che strategiche, che inducono a un certo scetticismo sull’esito finale della riforma costituzionale.