L’anomalia nei sistemi costituzionali degli ordinamenti liberali, la costituzionalizzazione della legge elettorale, la gestione dell’incarico dopo la sfiducia, il provvedimento ad personas. Giuliano Cazzola spiega perché la proposta del governo non lo convince
Il disegno di legge costituzionale attribuito a Maria Elisabetta Alberti Casellati (Viendalmare, no?) è un caso di “sarchiaponismo” giuridico d’inedita e singolare fattura. Vediamo le ragioni.
Prima: i sistemi costituzionali degli ordinamenti liberali – sia pure con tante contaminazioni – hanno un profilo presidenziale o semi presidenziale oppure parlamentare. Il cosiddetto premierato non esiste e in nessun caso – anche nei regimi prettamente presidenziali – viene garantito al capo dell’esecutivo una maggioranza parlamentare precostituita che resta o cade con lui. Nemmeno nel caso del sindaco, le sue dimissioni o la crisi della maggioranza che si è portata appresso comporterebbe sic et simpliciter il ritorno alle elezioni, ma come abbiamo visto in tante occasioni vi sono alternative che a volte vanno avanti per anni. Anche dove esiste un regime presidenziale forte, il Parlamento non subisce nessun condizionamento da un capo dello Stato eletto dal popolo. La Francia ne è un esempio palese: vi sono stati – sia con un presidente eletto gollista o socialista – dei periodi di coabitazione dove le due figure del presidente e del premier appartenevano a schieramenti avversari. Negli Stati Uniti, dove il presidenzialismo è una religione laica, non succede quasi mai che il capo dello Stato eletto (che svolge la funzione dell’esecutivo) inizi il suo mandato con la maggioranza in ambedue le Camere del Congresso o comunque che la mantenga dopo le elezioni di medio termine. Succede, invece, in quasi tutti i Paesi europei, a regime parlamentare, dove non sia prevista una monarchia dinastica, che il capo dello Stato sia eletto direttamente dal popolo. Eppure, questa soluzione, compatibile con il primato del Parlamento, è stata subito demonizzata dalle opposizioni (perché offensiva per Mattarella) e accantonata dalla maggioranza.
Seconda: il ddl Casellati “costituzionalizza” una legge elettorale (persino la scheda), per di più con un forte carattere maggioritario del 55% (senza che sia indicata una soglia minima). Per le leggi elettorali c’è la legislazione ordinaria soprattutto nel contesto di una Costituzione giustamente rigida per evitare lo stravolgimento a cui fu sottoposto lo Statuto albertino.
Terza: in caso di sfiducia del premier eletto (che può avvenire solo a opera della sua stessa maggioranza che controlla ambedue le Camere) il capo dello Stato è tenuto a conferire l’incarico a un altro esponente della stessa maggioranza “fellona”. Ma sarebbe un esito veramente improbabile, giacché i ribaltoni si possono fare solo all’interno della maggioranza che ha vinto le elezioni. Pertanto, è assai difficile che il premier ceda la campanella alla persona che lo ha disarcionato in casa. Chi si è accorto di questa trappola sostiene che la caduta del premier eletto conduca a nuove elezioni. Alla faccia della stabilità e della sfiducia costruttiva (un’araba fenice che in Germania è rimasta scritta nei manuali di diritto pubblico). Questo meccanismo potrebbe favorire quegli accordi che una volta si chiamavano della “staffetta”, nel senso che i partiti coalizzati potrebbero accordarsi, prima delle elezioni, di mandare a Palazzo Chigi i loro leader per una parte della legislatura, al termine della quale al premier eletto subentra il capo di un partito alleato.
Quarta: le considerazioni fino a ora svolte suscitano un dubbio, il ddl Casellati è un provvedimento ad personas, nel senso che, oltre a garantire l’inizio di un’era Giorgia Meloni, tende a rassicurare (magari senza riuscirci) Sergio Mattarella che a scapito di qualche potere in meno eviterebbe l’effetto – ritenuto destabilizzante – dell’introduzione dell’elezione diretta; il ddl poi strizza l’occhio a Matteo Salvini il quale – rebus sic stantibus – sarebbe l’esponente della stessa maggioranza a cui viene passata la mano. Stendiamo un velo pietoso sulla questione dei cosiddetti governi tecnici per il semplice fatto che non esistono. Come ebbe a dire Mario Draghi nelle comunicazioni sulla fiducia il 17 febbraio 2021, il governo “non ha bisogno di alcun aggettivo che lo definisca. Riassume la volontà, la consapevolezza, il senso di responsabilità delle forze politiche che lo sostengono alle quali è stata chiesta una rinuncia per il bene di tutti, dei propri elettori come degli elettori di altri schieramenti, anche dell’opposizione, dei cittadini italiani tutti”. In sostanza, ogni governo che riceve la fiducia del Parlamento ha un profilo politico. L’altro sgarbo è l’abolizione dei senatori a vita di nomina presidenziale.
Tutto ciò premesso, che cosa ha indotto Meloni a mettere la faccia e a impegnare il governo su di un progetto di revisione costituzionale scalcagnato, inutile e per certi aspetti pericoloso?
Pur senza ipotizzare soluzioni autoritarie (anche se avere in Costituzione una legge elettorale di carattere ampiamente maggioritario non mi lascia tranquillo) il ddl Casellati porta con sé le considerazioni e gli obiettivi che stavano alla base della legge maggioritaria passata alla storia come “legge truffa”: consentire a una coalizione di partiti di governare in sicurezza in un momento di grandi e importanti orientamenti politici. In questi anni tutte le maggioranze hanno usato con disinvoltura le leggi elettorali e fornicato con le suggestioni del maggioritario (nella passata legislatura, anche la sinistra esitò a cambiare il Rosatellum per tornare a un sistema proporzionale).
La nuova maggioranza a trazione Fratelli d’Italia è alla ricerca, con il ddl Casellati, di una legittimazione sancita dalla revisione di quella legge fondamentale che, nei fatti, escludeva gli eredi di Salò, dal gioco politico e dalla Costituzione materiale. In più, Meloni tenta – con l’elezione diretta del premier – di ottenere con un successo personale un’investitura popolare che consolidi anche formalmente quel ruolo primario che persegue nei fatti.
Anche Matteo Renzi con la riforma Boschi (e la proposta di legge elettorale ordinaria) aveva in mente di intestarsi un lungo periodo di governo. L’operazione non gli riuscì. Meloni, però è intenzionata a far tesoro di quel fallimento.
Così ha giocato, all’inizio della legislatura, l’asso di briscola, nel momento in cui gli altri giocatori non sono, per tanti motivi, alla sua altezza. Poi con il fumo negli occhi di un’elezione diretta un po’ farlocca potrebbe assecondare un sentiment popolare e populista, diseducato a convivere con la complessità della mediazione politica e ad accettarne i riti. Lo stesso elettorato che ha salutato con entusiasmo l’amputazione del Parlamento potrebbe sentirsi protagonista dell’elezione dell’Uomo (o della Donna) della Provvidenza. Le opposizioni che da oltre un anno gridano “al lupo” a ogni piè sospinto, non è detto che si accorgano che questa volta il lupo sta arrivando davvero.