L’ex-primo ministro israeliano suggerisce che le pressioni internazionali potrebbero costringere presto le forze di Tel Aviv a terminare le operazioni a Gaza, prima del raggiungimento di tutti i suoi obiettivi militari. E delinea uno scenario per il periodo post-bellico in un’intervista a Politico destinata a far riflettere
Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu preannuncia una “guerra lunga e difficile”. Ma la realtà potrebbe essere diversa? Potrebbe essere rimasto pochissimo tempo a disposizione per chiudere la lotta contro Hamas, prima che l’opinione pubblica mondiale prenda posizione contro le operazioni militari delle Israeli Defence Forces? A lanciare l’allarme è Ehud Barak, importante politico israeliano che in passato ha ricoperto le cariche di primo ministro di Israele e di ministro della Difesa, il quale in un’intervista a Politico delinea la sua visione e le sue preoccupazioni sul conflitto in corso.
“Si vede che la finestra si sta chiudendo. È chiaro che stiamo andando verso un attrito con gli americani riguardo all’offensiva. L’America non può imporre a Israele cosa fare. Ma non possiamo ignorarli. Dovremo venire a patti con le richieste americane entro le prossime due o tre settimane, probabilmente meno” afferma Barak, mentre denota il cambiamento di retorica da parte dei funzionari statunitensi. Se in un primo momento Washington aveva infatti fornito il suo supporto politico incondizionato ad Israele, già una settimana fa il presidente statunitense Joe Biden si era esposto per una “pausa umanitaria” all’interno della campagna delle Idf contro Gaza, mentre pochi giorni dopo il Segretario di Stato Antony Blinken ha rimarcato a Tel Aviv che il proteggere la popolazione di Gaza e il ridurre al minimo le vittime civili all’interno dell’operazione militare fossero obiettivi assolutamente prioritari.
“Ascoltate il tono del dibattito pubblica, che dietro le porte è un po’ più esplicito. Stiamo perdendo l’opinione pubblica in Europa e tra una o due settimane inizieremo a perdere i governi in Europa. E dopo un’altra settimana gli attriti con gli americani emergeranno in superficie” dice sempre Barak a Politico, riferendosi all’indebolimento del supporto occidentale (specialmente nel Vecchio Continente) per via della crescita delle vittime civili e del rischio di allargamento del conflitto a livello regionale, oltre che per le preoccupazioni legate alla presenza di cittadini europei tra gli ostaggi di Hamas. La reazione del governo statunitense è fortemente condizionata dalla posizione europea, e anche se fino ad ora il governo di Netanyahu è riuscito a resistere alle pressioni di Washington, potrebbe presto doversi arrendere.
Anche perché potrebbero essere necessari mesi, o addirittura un anno, per estirpare il gruppo militante islamista Hamas — il principale obiettivo di guerra fissato da Netanyahu e dal suo gabinetto di guerra. Obiettivo che l’ex-primo ministro definisce giusto:. “Lo shock dell’attacco è stato enorme. È stato un evento senza precedenti nella nostra storia, ed è stato subito chiaro che doveva esserci una risposta dura. Non per vendicarsi, ma per assicurarsi che non possa accadere mai più” afferma Barak, che prosegue poi sostenendo che anche se l’operazione militare terreste non porterà alla completa distruzione di Hamas, causerà in ogni caso danni così forti all’organizzazione terroristica palestinese non solo da incapacitarne l’azione, ma anche da renderne virtualmente impossibile la rinascita.
Mentre per il periodo di transizione post-bellico, l’esponente politico israeliano suggerisce che “con l’appoggio della Lega Araba e del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, si possa costituire una forza araba multinazionale, con l’inclusione di alcune unità simboliche di Paesi non arabi”, la quale potrebbe rimanere a Gaza per alcuni mesi così da supportare l’Autorità Nazionale Palestinese a riprendere il controllo sul territorio, dopo che nel 2007 la faida intra-palestinese l’aveva costretta a rinunciare al controllo politico sulla Striscia.
Anche perché in questo modo si potrebbe andare a (ri)costruire quel clima di fiducia che si stava creando prima del 7 ottobre, un clima di fiducia che piaceva tanto a Tel Aviv quanto al mondo arabo. “I leader arabi devono anche essere in grado di dire ai loro popoli che qualcosa sta cambiando e che si sta aprendo un nuovo capitolo, in cui c’è uno sforzo sincero da parte di tutti per calmare il conflitto. Ma hanno bisogno di sentire che Israele è in grado di pensare in termini di cambiamento della direzione intrapresa negli ultimi anni”, afferma in chiusura Barak, rimarcando però che “non accadrà rapidamente, e ci vorrà del tempo. La fiducia da tutte le parti è venuta meno, e la sfiducia si è solo aggravata”.