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Ucraina, Medio Oriente e Taiwan. Il sistema internazionale raccontato da Nelli Feroci (Iai)

Secondo il presidente dello Iai, Ucraina e Medio Oriente segnano la divisione tra Occidente e Mondo Globale. Mentre Taiwan rimane sullo sfondo. “Il problema è che questo ordine internazionale, nato dopo la Seconda guerra mondiale e contraddistinto dalla leadership americana, era già in crisi da alcuni anni, caratterizzato da una sorta di multipolarismo instabile”, dice a Formiche.net

Nel sistema internazionale odierno corrono delle macro-linee di frattura che dividono il globo in due grandi settori, divisi a loro volta da delle linee meno marcate ed appariscenti. Per interpretare queste linee, Formiche.net si è rivolta a Ferdinando Nelli Feroci, ambasciatore e presidente dell’Istituto Affari Internazionali.

Oggi vi è una profonda demarcazione che separa il blocco occidentale e il fronte revisionista. Quando è uscita allo scoperto questa rottura? E quanto è marcata?

Effettivamente una distanza di posizioni e di sensibilità tra Occidente e resto del mondo era emersa in occasione dell’aggressione russa all’Ucraina e non si è ancora sanata. Questa divergenza di posizioni rimane come una minaccia sul futuro della governance globale. E per certi aspetti si è anche accentuata come conseguenza del recente riaccendersi della conflittualità israelo-palestinese. Queste differenze di sensibilità tra i due schieramenti si erano già delineate in occasione del conflitto in Ucraina, anche se i Paesi del Sud Globale (una definizione di carattere generale e talvolta anche fuorviante), caratterizzati appunto da diverse sensibilità, sono uniti nel mostrarsi riluttanti a manifestare posizioni solidali a quelle dell’Occidente. Ciò che accomunava la posizione del Sud Globale è stato il rifiuto di condannare esplicitamente l’aggressione russa e nel rifiuto di associarsi alle sanzioni adottate dall’Occidente nei confronti di Mosca. Alcuni di questi Paesi, in particolare la Cina, hanno approfittato di questa circostanza per assumere un ruolo di leadership di questo eterogeneo gruppo che trova nella contrapposizione all’Occidente un denominatore comune.

E l’attacco di Hamas di poche settimane fa ha stressato questa contrapposizione…

Il conflitto che è esploso dopo gli attentati del 7 ottobre ha riproposto tragicamente questa contrapposizione, sia pure con alcune sfumature. Una delle numerose conseguenze della ripresa delle ostilità in Medio Oriente è stata la riproposizione di uno schieramento occidentale compatto nell’esprimere solidarietà a Israele, dal quale si distingue un fronte di Paesi estranei al mondo occidentale riluttanti a condannare gli attentati di Hamas e più propensi ad esprimere solidarietà al popolo palestinese. Poi all’interno di questi grandi schieramenti ci sono, ovviamente, sfumature di varia natura. Un esempio di questa dinamica lo abbiamo potuto constatare in occasione del vertice convocato dall’Arabia Saudita a Riad: un incontro in cui i partecipanti hanno manifestato evidenti divergenze sulle misure da adottare nei confronti di Israele, manifestando anche in questa occasione divisioni interne.

In tutto questo qual è il ruolo del “dossier Taiwan”?

Per quel che riguarda Taiwan, la questione per ora rimane sullo sfondo, poiché non risulta al momento di tale urgenza e di attualità da obbligare un posizionamento nella comunità internazionale. Non dico che non sia importante, è anzi ben chiara all’orizzonte, ma è meno urgente delle crisi in Ucraina e in Medio Oriente.

Possiamo individuare un filo rosso tra queste crisi?

Non vedo una relazione diretta causa-effetto tra la guerra in Ucraina e quello che sta succedendo nel contesto del conflitto israelo-palestinese. Sono due conflitti che rispondono a logiche diverse, e che hanno cause e origini diverse. Ci sono però dei collegamenti.  Se c’è un beneficiario della crisi israelo-palestinese, questo è sicuramente  Vladimir Putin, che ha visto allentarsi la pressione politico-mediatica sul conflitto in Ucraina, con un Occidente che in questa congiuntura è molto più impegnato sulla crisi a Gaza. Ciò ha favorito la posizione di Mosca, sia dal punto di vista mediatico sia per la difficoltà degli Stati Uniti e degli alleati occidentali di continuare a mettere a disposizione dell’Ucraina aiuti di carattere militare. Un altro collegamento invece è quello che prima accennavo, quando ho evocato la crisi in Medio Oriente come ulteriore causa di approfondimento della distanza tra l’Occidente e il resto del mondo, distanza già concretizzatasi con lo scoppio del conflitto in Ucraina.

Il ritiro o la sconfitta dell’Occidente da una di queste crisi potrebbe aprire una questione di “legittimità” dell’attuale ordine internazionale?

Il problema è che questo ordine internazionale, nato dopo la seconda guerra mondiale e contraddistinto dalla leadership americana, era già in crisi da alcuni anni. Il contesto internazionale ancor prima del conflitto in Ucraina e dalla crisi in Medio Oriente era un contesto caratterizzato da una sorta di multipolarismo instabile. Non c’era più una potenza egemonica in grado di dettare le regole, di imporre la sua visione del mondo e di risolvere i conflitti. Al contrario, vi era l’emergere di un numero cospicuo di nuovi protagonisti interessati a mettere in discussione le regole del gioco emerse nel 1945 e nel 1989. Eravamo già in presenza di un contesto internazionale molto poco prevedibile, molto instabile e con regole rimesse in discussione. Quello che sta succedendo conferma questa instabilità, e conferma la difficoltà di ristabilire nuove regole e nuovi rapporti di forza. Dalla crisi mediorientale potrebbe emergere un dato positivo: potremmo essere alla vigilia di un nuovo impegno americano nella regione. Gli Stati Uniti avevano abbandonato quello scacchiere oramai da molti anni. Ora siamo in presenza di un nuovo attivismo politico-diplomatico dell’amministrazione americana, per ora senza risultati concreti, che è però un segnale positivo di re-engagement verso una regione da cui si erano sfilati.

Quanto è coeso il fronte revisionista?

Possiamo identificare il fronte revisionista in quel gruppo di Paesi che definiamo “Sud Globale”, o Brics allargati, Paesi che però sono caratterizzati da importanti differenze tra di loro. Ad esempio per le forme di governo, considerando che tra di loro vi sono sia democrazie funzionanti che regimi autocratici. Ma soprattutto per interessi strategici nazionali, e a volte anche per delle significative rivalità tra di loro. Tuttavia quello che li accomuna è la determinazione a far valere il proprio ruolo nell’attuale scenario globale in trasformazione, più di quanto abbiano fatto fino ad ora. Per questo motivo approfittano delle due crisi in Ucraina e Medio Oriente per riaffermare un loro protagonismo, molto spesso in contrapposizione con un blocco occidentale in difficoltà. Ma non è un fronte così compatto come può apparire all’esterno. È anzi caratterizzato da forti differenze all’interno e da delle dinamiche non sempre perfettamente lineari.

Al contrario del blocco occidentale?

In relazione al conflitto in Ucraina il blocco occidentale si è manifestato unito e compatto, grazie ad una leadership americana, che ha portato Stati Uniti, Europa e Paesi alleati ad unirsi assieme su condanna della Russia e solidarietà all’Ucraina. Ma la chiave è stata proprio la leadership americana. Se nel prossimo futuro dovesse cambiare il quadro politico a Washington, e si dovesse ad esempio insediare un presidente repubblicano, non sono sicuro che il fronte occidentale potrebbe rimanere così unito. C’è un punto interrogativo che si proietta nel futuro di qui ad un anno, che ha molto a che fare con le presidenziali negli Stati Uniti. In caso di una vittoria di Donald Trump, vedo significative difficoltà a mantenere una coesione del fronte occidentale. Come abbiamo già visto nel 2016.


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