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Studiare la pubblica amministrazione per migliorare la democrazia. L’intervento di Monti

La rivoluzione culturale di cui l’Italia ha più bisogno, è una rivoluzione che includa all’interno del concetto di cultura degli elementi che, attualmente, pare viaggino in “classificazioni” separate. Ecco quali nell’analisi di Stefano Monti

Sotto il profilo prettamente culturale, la democrazia è soltanto una delle possibili forme mediante le quali un Paese decide di organizzare il proprio funzionamento. Come è noto a tutti, molte altre forme sono possibili e la democrazia costituzionale, sotto il profilo storico, è una modalità raggiunta in tempi piuttosto recenti. In passato (e anche oggi in altre geografie) i Paesi sono stati governati in modi molto differenti: dalla democrazia diretta dell’antica Grecia alle monarchie, fino ad arrivare alle dittature.

Essere cittadini di un Paese a democrazia rappresentativa, quindi, non è un “destino”, ma una scelta. Una scelta che, al pari di qualunque altra scelta, comporta dei benefici e degli oneri. I benefici sono chiari, anche se negli ultimi decenni hanno perso quell’appeal di cui certamente godevano anche solo il secolo scorso. Ma se siamo un po’ dimentichi su ciò che riguarda i benefici del vivere in una democrazia, sul versante degli oneri che questa forma implica, siamo completamente avvolti da una brutale amnesia.

Una questione che riguarda da vicino, e molto, anche il comparto culturale.

Essere cittadini di una democrazia rappresentativa, infatti, significa vivere in un sistema democratico in cui, non potendo i cittadini avere le competenze ed essere impegnati nell’assunzione di scelte che riguardano la “cosa pubblica”, si delegano tali funzione ad una serie di rappresentanti, noti al secolo come “politici” (con o senza partito), che, sulla base di una serie di dichiarazioni, e sulla base di una serie di documenti (programmi), trasmettono ai cittadini una propria precisa idea di governo. Quando si vota, quindi, si eleggono i propri rappresentanti, e questo significa che si votano delle persone che sono pagate (giustamente) per fare gli interessi di quella che è la maggioranza dei cittadini.

Riportando il discorso al nostro quotidiano, il nostro Paese segue il processo della delega. Come quando operiamo nel nostro privato, quindi, i risultati di tale delega vanno però monitorati, al fine di esser certi che il nostro delegato abbia davvero agito in buona fede, e nella tutela dei nostri interessi.

Scontato? Forse solo nella dimensione del “principio”, perché poi, nella pratica quotidiana, sono veramente pochi i momenti di controllo diretto da parte dei cittadini. Certo, anche questa azione è stata delegata, ma ciò non esime che il cittadino ha una forte responsabilità. Perché il cittadino deve verificare che le persone che ha votato abbiano poi concretamente condotto una politica che rispettasse i propri valori e le proprie idee.

Il punto è che, al di là delle parole, valutare l’operato del settore pubblico è estremamente difficile. Ci si perde dietro alle tante complicazioni inutili che nel tempo si sono create, e spesso i cittadini non dispongono delle conoscenze di base per poter accedere ai contenuti su cui sono chiamati ad esprimere una propria opinione.

La manovra ’24, ad esempio, come si legge dalle sintesi promosse dalla stampa, prevede l’istituzione di 6 nuovi fondi, per una dotazione di 3,1 miliardi di euro nel triennio 2024–2026.

Il “naming” utilizzato per questi fondi è encomiabile. Soltanto persone con bassissima sensibilità, e con uno sprezzo per il pericolo di linciaggio sui social potrebbero arrischiarsi a criticare l’istituzione di extra-risorse per temi come quelli menzionati.

Vediamoli da vicino: i fondi sono, “Fondo nazionale di intervento per la lotta alla droga”; “Fondo unico per l’inclusione delle persone con disabilità”, “Fondo per il finanziamento di un programma di mitigazione strutturale della vulnerabilità sismica degli edifici pubblici”, il “Fondo per la gestione delle emergenze nell’ambito agricolo”, il “Fondo Speciale per la rimozione degli squilibri economici e sociali”, e il “Fondo per i piccoli comuni in aree svantaggiate”.

Temi sacrosanti, che vanno sicuramente rispettati e che rappresentano, ciascuno a suo modo, delle dimensioni estremamente rilevanti per la vita democratica e lo sviluppo del nostro Paese.

Se però saltiamo le premesse in cui siamo tutti buoni, arriva un tema che forse merita attenzione. Generare un fondo significa prevedere un capitolo di spesa per sostenere il quale dovranno in ogni caso essere previste delle coperture che andranno (direttamente o indirettamente, presto o tardi) a cadere sui cittadini.

Ora, lo scopo di questa riflessione non è di indagare le ragioni tecniche per le quali si agisca in questo modo. Il punto è comprendere che quando si afferma che sono stanziati finanziamenti straordinari per l’inclusione delle persone con disabilità, una parte di quelle risorse è volta a sopperire a fallimenti della Pubblica Amministrazione.

Il tema della lotta alla droga, per intenderci, sicuramente non verrà gestito con le risorse attivate dal fondo. Al fondo, infatti, vengono assegnati 5 milioni di euro per ciascuno degli anni 2024, 2025 e 2026. Totale: 15 milioni. Che per un tema come la lotta alla droga sono un’inezia.

La lotta alla droga è già assicurata attraverso una serie di iniziative e di interventi che il Settore Pubblico già conduce: dalla prevenzione al contrasto di polizia, dal recupero al reinserimento sociale e lavorativo.

Questi 5 milioni annui, quindi, vanno ad integrare delle iniziative che sicuramente hanno un valore, ma che acquisiscono tale valore perché tutte le attività attualmente condotte (di prevenzione, di contrasto, di recupero dei tossicodipendenti e del loro reinserimento sociale e lavorativo), non hanno generato effetti tali da essere considerati soddisfacenti. Se fossero realmente efficaci, infatti, da un lato non ci sarebbe più un abuso di sostanze e un crescente numero di dipendenti senza sostanza (come i ludopatici), ma soprattutto, non ci sarebbe bisogno di spendere ulteriori risorse.

Ciò significa che bisogna essere contrari all’istituzione di tale fondo? Assolutamente no. Ma qui si ritorna ai tanti oneri che presuppone l’essere cittadini di un Paese in cui vige la democrazia rappresentativa. Per poter essere favorevoli o contrari, sarebbe forse corretto inquadrare il tema in una logica meno comunicativa e più analitica.

Quante risorse vengono già investite per interventi di contrasto all’utilizzo della droga? Quali sono le dimensioni prioritarie di intervento? Quali sono i reali risultati che sono stati raggiuti? In che modo questi fondi aggiuntivi potranno migliorare questa dimensione? Quali sono gli obiettivi quantitativi che, anche grazie a questi fondi, si può ritenere realistico raggiungere?

Come cittadini, abbiamo il dovere di approfondire questi aspetti, perché altrimenti crolla il concetto stesso di democrazia rappresentativa. Dobbiamo renderci conto che, da molto tempo ormai, abbiamo smesso di delegare e abbiamo semplicemente iniziato ad ignorare tutto ciò che concerne la nostra collettività.

Prendiamo ad esempio la cultura. Per la cultura si chiede spesso di incrementare i fondi erogati fissandoli ad una quota del Pil. O si chiedono maggiori interventi in determinate aree, o, recentemente, si chiede ci siano ingressi gratuiti per tutti nei musei.

Si tratta di richieste che trovano concreta legittimazione nel livello di dettaglio delle proposte, altrimenti restano vaghi slogan che rischiano di essere davvero soddisfatti, a discapito dei cittadini.

Chiariamo meglio questo aspetto: ipotizziamo che la spesa nazionale per la cultura salga, esageriamo, al 10% del Pil. Uno scenario di questo tipo sarebbe antidemocratico, ma facciamo finta sia possibile. Bene, in una condizione di questo tipo, tutti gli operatori che sino al giorno prima richiedevano un ancoraggio della spesa pubblica in cultura al 3% del Pil dovrebbero essere più che soddisfatti.

Poi però scopriamo che questo incremento è totalmente attribuibile ad un rinnovo contrattuale dei dipendenti del ministero, e all’assunzione di specialisti a tempo determinato (12 mesi) che si occupino dello sviluppo di attività di digitalizzazione e affini.

Un incremento di questo tipo, quanto realmente impatterebbe sulla vita democratica e culturale del nostro Paese? Poco. Molto poco.

Al di là dell’esempio, che riflette soltanto una esasperazione di ciò che è accaduto con le risorse straordinarie messe a disposizione dal celebre Pnrr, il tema di come vengano gestiti gli obiettivi pubblici è un tema principalmente culturale.

Un tema che, per la propria rilevanza, sia sociale che poi realmente economica, andrebbe introdotto nelle scuole, al fine di sensibilizzare i cittadini, anche i più piccoli, a quello che è il collante della democrazia, e vale a dire il rapporto tra deleganti (i cittadini) e delegati (le istituzioni) nel perseguimento del benessere collettivo.

Introdurre la materia di “pubblica amministrazione” nel percorso scolastico di tutti i cittadini potrebbe sicuramente migliorare la capacità della popolazione di svolgere quel compito che è alla base della democrazia. Ed è chiaro che in un sistema politico di questo tipo, le proposte di “istituzione di fondi straordinari” andrebbero sicuramente motivate meglio di un piccolo articolo all’interno di una manovra finanziaria (articolo che tra l’altro, come indicato dalle osservazioni della Camera, non introduce nulla di nuovo, perché tale ipotesi era già stata prevista nel 1990 ma si necessitava di criteri di ripartizione del fondo, che nella Manovra non sono indicati e che invece vengono proprio sollecitati dalle osservazioni).

La rivoluzione culturale di cui l’Italia ha più bisogno, è una rivoluzione che includa all’interno del concetto di cultura degli elementi che, attualmente, pare viaggino in “classificazioni” separate: è cultura comprendere come funziona la tecnologia; è cultura comprendere come sviluppare una app; è cultura avere un’idea chiara di come funziona un Comune.

Se non lo capiamo, allora stiamo semplicemente violando le regole del funzionamento della democrazia.



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