Skip to main content

Quanto pesa la Cina su Usa2024 (e viceversa). Del Pero spiega il rapporto Washington-Pechino

Per Mario Del Pero (SciencesPo), “pesa tantissimo sulla campagna elettorale in corso, e le costrizioni che ne conseguono limitano anche le possibilità e il raggio d’azione dell’amministrazione Biden, così come i contenuti effettivi di questa piccola distensione degli ultimi mesi”

Secondo Mario Del Pero, docente di Storia Internazionale e Storia della politica estera statunitense all’Institut d’études politiques di Parigi, “la causalità dell’incontro tra Joe Biden e Xi Jinping nell’anno elettorale va letta in questo senso: non l’impatto delle relazioni sino-statunitensi sul voto 2024 (che sarà limitato, temo), ma quello del voto e della campagna elettorale sui rapporti con la Cina e, più in generale, sulla politica Usa nell’Indo Pacifico. Siamo nel guado, ma la situazione è complicata e, come su tanto altro, il contesto politico disfunzionale e urlato statunitense non aiuta”.

È notizia di oggi, uscita proprio mentre il tavolo dell’incontro tra i due leader è già apparecchiato, che il piano di Biden per rivelare una parte chiave della sua strategia economica nell’Indo Pacifico è stato bloccato dall’opposizione dei Democratici del Congresso. La Casa Bianca ha dovuto cambiare direzione a seguito delle pressioni guidate dal senatore Sherrod Brown dell’Ohio, preoccupati degli impatti elettorali di un nuovo accordo commerciale.

“L’immagine della Cina presso l’opinione pubblica Usa è straordinariamente negativa. Mai così negativa da quando Gallup fa queste rilevazioni annuali, dal 1979, anno del ristabilimento pieno delle relazioni diplomatiche)”, spiega Del Pero a Formiche.net. È questo il contesto.

“E il crollo è stato repentino e rapido, degli ultimi 5/6 anni, quando, contestualmente alla crisi e delegittimazione della globalizzazione, si è pienamente radicata l’idea che la Cina abbia sfruttato in modo spregiudicato l’ingenuità statunitense, e giocato un ruolo decisivo tanto nella crisi della working e middle class americana (parliamo di outsourcing e industrializzazione) quanto nell’ascesa di super ricchi Usa che nelle supply chain transnazionali/globali in cui la Cina giocava un ruolo cruciale (negli stadi iniziali o intermedi) erano spesso i terminali dove arrivava il profitto”, aggiunge il docente di SciencesPo.

In sostanza nel discorso anti-elitista e populista così egemonico negli Stati Uniti degli ultimi anni la Cina occupa uno spazio centrale ed è un facile bersaglio. Bersaglio peraltro politicamente trasversale, dato che questa critica è condivisa sia a destra che a sinistra. Sebbene infatti vi siano differenze (la linea anticinese è più diffusa tra l’elettorato repubblicano), non sono così marcate.

“È chiaro — continua Del Pero — che ciò pesa tantissimo sulla campagna elettorale in corso, e le costrizioni che ne conseguono limitano anche le possibilità e il raggio d’azione dell’amministrazione Biden, così come i contenuti effettivi di questa piccola distensione degli ultimi mesi. Da un lato Biden non può apparire debole o accondiscendente verso la Cina; non può fare concessioni rilevanti su tecnologia, commercio e altre questioni strategiche. Dall’altro, qualsiasi rilancio di processi d’integrazione economica si scontra sia con le politiche attivate negli ultimi anni (pensiamo all’Inflation Reduction Act, per esempio) sia con le esigenze elettorali del presidente e di tanti candidati a Senato e Camera”.

Il tutto in un contesto in cui confronti elettorali polarizzati e radicalizzati tendono a estremizzare toni e posizioni, come vediamo bene nelle primarie repubblicane, dove la critica cinese tracima non di rado in grossolana sinofobia.

“Ciò lo si vede anche in ambito securitario. Non solo una larga maggioranza di americani ha un’immagine negativa della Cina ma la considera anche una minaccia militare (un esempio in questo sondaggio del Chicago Council on Global Affairs, ndr). E sappiamo inoltre quanto la threat inflation possa pesare nella retorica elettorale”, dice Del Pero.

E però, c’è una parte di mondo finanziario americano – spalmato su più livelli, dal semplice broker di Wall Street ai più strutturati fondi di investimento – che tendenzialmente non vuole un confronto acceso: non è una questione etica o morale, tanto meno ideologico, ma semplicemente la considerazione che dalla stabilità può nascere maggiore profitto. Come viene gestita questa componente, davanti alla visione generale?

“Ci sono effettivamente pezzi importanti della comunità imprenditoriale (e finanziaria) statunitense – risponde Del Pero – che lavorano sottotraccia per evitare deragliamenti. E l’interdipendenza rimane profonda, come mostra ad esempio la supply chain di Apple. Però un cambiamento vi è stato: quest’anno le importazioni saranno sensibilmente inferiori (con contestuale boom del deficit con altri paesi, Vietnam e Messico ad esempio); inoltre i meccanismi attivati con politiche interne (l’Ira) o accordi commerciali (tipo Nfta2/Usmca) hanno talora esplicite ed efficaci clausole anti-cinesi”.

×

Iscriviti alla newsletter