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Pareto e l’introduzione del termine “élite” nel dibattito. Scrive Pedrizzi

Cento anni fa moriva Vilfredo Pareto, economista, sociologo e ingegnere italiano che, per la prima volta, introdusse nel linguaggio scientifico, sociologico e storico ‑ politico il termine élite. La natura della sua attività lo pose naturalmente di fronte ai problemi fondamentali della politica economica e, segnatamente, a quello della protezione doganale

Come noto, era stato Pareto nei suoi Les sistèmes socialistes (1902 ‑ 1903), Manuale di economia politica (1906) e nel Trattato di sociologia generale (1916) ad introdurre nel linguaggio scientifico, sociologico e storico ‑ politico il termine élite: “Facciamo dunque una classe di coloro che hanno gli indici più elevati nel ramo della loro attività, alla quale daremo il nome di classe eletta (élite), precisando, però, che questa non è immutabile e fissa, anzi non può durare oltre un certo periodo e ben presto sparisce dalla scena della storia”.

“Per via della circolazione delle classi elette, la classe eletta di governo è in uno stato di continua e lenta trasformazione, essa scorre come un fiume, e questa d’oggi è diversa da quella di ieri”.

In una visione così mobile della società e così fluttuante dell’organizzazione del potere è evidente che la classe eletta rappresenta solamente una piccola minoranza rispetto alla generalità della popolazione, dalla quale di volta in volta emergono elementi capaci di affermare la propria attitudine di comando e di direzione.

Quando ciò non avviene fisiologicamente, allora si rompe l’equilibrio ed avvengono le rivoluzioni “sia pel rallentarsi della circolazione della classe, sia per altra causa, si accumulano negli strati superiori elementi scadenti che più non hanno i residui (per il Nostro i “residui” non sono altro che gli istinti e le motivazioni più profonde dell’azione umana n.d.a.) atti a mantenerli al potere, che rifuggono dall’uso della forza, mentre crescono negli strati inferiori gli elementi dì qualità superiore che posseggono i residui atti ad esercitare il governo, che sono disposti ad adoperare la forza”.

Per questo Pareto, già per sua natura polemico, legato all’attualità del tempo, partecipe appassionato delle vicende storiche e politiche contemporanee, non dissimulò mai le sue simpatie per il nazionalismo e per il fascismo, in ossequio, appunto, alla sua impostazione teorica della circolazione delle élites.

Vilfredo Pareto nacque a Parigi il 15 luglio 1848, dove il padre, vecchio patrizio genovese, mazziniano, viveva esule.

Passò in Francia i primissimi anni della sua vita. A partire dal 1858 proseguì gli studi in Italia e si laureò ingegnere al Politecnico di Torino nel 1869.

Esercitò la professione per circa un ventennio e fu direttore della ferrovia di S.Giovanni Valdarno e poi direttore generale delle Ferrovie italiane.

Uomo di mondo, frequentò in quel periodo l’alta società fiorentina e, in particolare, il salotto della signora Emilia Peruzzi, alla quale unitamente al marito Ubaldino restò sempre affezionato.

La natura della sua attività lo pose naturalmente di fronte ai problemi fondamentali della politica economica e, segnatamente, a quello della protezione doganale.

Industriale, non si limitò a prendere in considerazione il suo “particulare”, ma scese in campo, paladino della dottrina del libero scambio, in nome della quale sferzò la politica protezionista del tempo, denunciandone la povertà spirituale e l’asservimento a interessi di gruppi. Soltanto più tardi, nella maturità del pensiero, rinnegò gli antichi scritti di carattere polemico, non perché fosse cambiato il suo giudizio verso gli uomini, ma perché era mutato il suo atteggiamento teoretico e più largo era l’angolo visuale da cui giudicava la realtà.

Viveva a Firenze quando la lettura degli “Elementi di economia pura” di Maffeo Pantaleoni lo attrasse nella speculazione scientifica. Da occupazione complementare i suoi studi divennero così assorbenti da fargli abbandonare ogni altra attività.

Dal 1890 al 1905 infatti collaborò assiduamente al “Giornale degli Economisti”, consolidando su ferme basi le dottrine dell’economia matematica, che già erano state introdotte a livello scientifico da A. Cournot, W. Jevons e L. Walras e costituirono poi la sua teoria generale dell’equilibrio economico.

L’ostilità della classe universitaria del tempo gli negò una cattedra in Italia. Accettò pertanto l’offerta del cantone svizzero di Vaud e successe nel 1893 a Walras nell’insegnamento dell’economia politica all’università di Losanna.

Lasciato l’insegnamento nel 1906, si ritirò a Céligny, dove nella quiete della sua villa Angora visse l’ultimo periodo della sua vita.

Fu questo il periodo più fecondo della sua operosità scientifica, in cui videro la luce alcune opere fondamentali: il Manuale di Economia Politica e il Trattato di Sociologia.

Continuò a seguire le vicende economiche e politiche del tempo e lo studio e la meditazione lo portarono gradatamente verso un atteggiamento spirituale antitetico a quello di origine, per cui il vecchio liberale che all’inizio tendeva al radicalismo se non al socialismo, si andò a poco a poco trasformando in uno dei più gagliardi critici del socialismo e della democrazia.

I governi dell’Italia democratica lo ignorarono. Ciò non fece il governo fascista, che nei primissimi mesi del suo insediamento lo nominò senatore del Regno e lo propose anche come delegato dell’Italia alla Società delle Nazioni per la questione del disarmo. Incarico che Pareto, per le condizioni di salute, dovette rifiutare.

Morì nel 1923.



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