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La cultura contemporanea come antidoto al femminicidio. Il commento di Monti

La questione centrale non è affatto quella di identificare gli strumenti per evitare che si commettano omicidi. La questione centrale è creare le condizioni perché il nostro Paese sviluppi, nelle nuove generazioni, una società migliore di quella che attualmente rappresentiamo. E la via è quella dell’arte contemporanea e della cultura

Sono rari i momenti in cui, in televisione, si affronta il tema della cultura e dell’educazione alla bellezza come strumenti per migliorare la nostra società.

Sono opinioni che non fanno notizia, se non in occasione di eventi tragici. L’esempio più duraturo è stato il periodo del lockdown. Quello più recente il caso di cronaca che in questi giorni sta ricevendo piena copertura mediatica.

Proprio in funzione di questo delitto, è stato invitato come ospite il sottosegretario alla Cultura, Vittorio Sgarbi.

Il messaggio di Sgarbi è stato estremamente chiaro. Parafrasando, il sottosegretario ritiene che più che inserire una materia scolastica che sensibilizzi al comportamento civico, la scuola dovrebbe meglio insegnare i contenuti delle opere che pur sono già previste all’interno dei programmi.

Continua, Sgarbi, affermando un messaggio molto importante: credo che educare ad esser buoni sia molto meno efficace che educare a sentire la bellezza.

Cita poi la gentilezza che evoca la poesia, con parole che in chi scrive hanno rievocato il celebre monologo de L’attimo fuggente: “Non leggiamo e scriviamo poesie perché è carino. Noi leggiamo e scriviamo poesie perché siamo membri della razza umana. E la razza umana è piena di passione. Medicina, legge, economia, ingegneria, sono nobili professioni necessarie al nostro sostentamento. Ma la poesia, la bellezza, il romanticismo, l’amore. Sono queste le cose che ci tengono in vita.”

Interessantissimo, in questo senso, l’approccio più pragmatico di Tiziana Panella, che sollevava qualche dubbio sulla concreta percorribilità di questo approccio.

Ed è in questo scambio che la vicenda dovrebbe assumere una dimensione di riflessione istituzionale. Da un lato il sottosegretario alla Cultura che invita la Scuola ad insegnare “meglio” il senso della poesia, e dell’arte, e dall’altro una posizione meno “aulica” ma più urgente, che teme tali intenti siano poco realistici e raggiungibili.

Nell’una e nell’altra posizione, quasi un piccolo dettaglio, emerge una base di sconforto nei confronti del sistema scolastico. Il sottosegretario, nel sostenere che non vengono insegnati i valori e il senso di Renzo e Lucia, di fatto testimonia che tale opera viene trattata in modo non efficace. La giornalista Panella, che è cresciuta a San Nicola la Strada, comune del casertano che pur non rispondendo al cliché dell’area pericolosa, comunque fornisce una visione ad ampio raggio su differenti condizioni sociali, teme addirittura che inserire nel piano di studi una specifica materia sia una soluzione più semplice, rispetto a far sì che il sistema scolastico riesca a coinvolgere gli studenti sul senso delle opere che hanno fatto la storia della nostra arte e della nostra poesia.

Sfortunatamente, come detto, questo tema trova una eco mediatica soltanto in occasione di tragiche circostanze, convogliando il dibattito pubblico su riflessioni che rischiano di essere fortemente influenzate da componenti emotive, mentre l’argomento richiede un ragionamento pacato e fermo, che permetta di valutare tutti gli strumenti che possiamo utilizzare per favorire l’emersione di una società migliore.

Riprendendo dunque le parole del Sottosegretario alla Cultura, è opportuno comprendere cosa, in realtà, impedisca al sistema scolastico di trasmettere agli alunni il senso vero dell’arte e della poesia, il senso profondo che ha mosso geni della letteratura, della poesia, e delle arti, a realizzare una determinata opera, a coltivare con tanto impegno una propria passione o professione al punto da riuscire a creare qualcosa che li ha sopravvissuti.

Soprattutto, bisogna indagare questo aspetto evitando di indirizzare responsabilità poco concrete.

Poco senso, e poca risoluzione pratica ha, ad esempio, veicolare tutte le responsabilità verso i “genitori” che non educano i propri figli, o verso gli “insegnanti” che non sanno trasferire conoscenza e regole di base. Ancor meno ne ha scaricare tutto sull’industria cinematografica o sui videogiochi, o ancora sull’utilizzo degli smartphone. Meno ancora ha senso dare responsabilità univoca ai “ragazzi”.

Indirizzare accuse di questo tipo è, letteralmente, una lotta tra perdenti, in cui ciascuno ha la propria dose di responsabilità che cerca di rinnegare attribuendo agli altri responsabilità ben maggiori.

Il tutto, di fronte ad una platea di ragazzi che osservano tutti questi patetici dibattiti da cui tutta la società emerge sconfitta.

Partiamo dunque da alcuni punti di base.

Asl di Alessandria. Convegno di Criminologia – “Vite assassine – viaggio nella mente criminale”. 13 ottobre 2011. Intervento del dottor Massimo d’Angelo. Il lato criminale delle persone normali. Slide numero 3. Il fenomeno criminale è presente in ogni tempo e in ogni epoca, in tutti i continenti, sotto tutti i regimi politici, in qualsiasi sistema sociale, in qualunque ambiente.

Slide numero 6: Benché [il lato oscuro della personalità sia] presente in tutte le persone, la maggior parte di queste non commette stupri, né omicidi, né compie rapine. Quando questo accade: i freni inibitori della morale, delle leggi e dei sensi di colpa funzionano; il comportamento criminale viene adeguatamente ingabbiato e imbrigliato dalle regole educative della famiglia, della scuola e della religione.

Sulla base di queste informazioni, quindi, possiamo cercare di allontanare la tentazione di replicare, in modo più o meno raffinato, le vicendevoli accuse, intra e intergenerazionali e tornare alla questione centrale specificando che, è il caso di ribadirlo, la questione centrale non è affatto quella di identificare gli strumenti per evitare che si commettano omicidi. La questione centrale è creare le condizioni perché il nostro Paese sviluppi, nelle nuove generazioni, una società migliore di quella che attualmente rappresentiamo.

Questo consente di approfondire in modo più chiaro il tema: la cultura ha davvero un ruolo attivo nella creazione di società più evolute? La risposta che il nostro Paese si è istituzionalmente data è affermativa. E sulla base di questa profonda convinzione, ha strutturato gran parte delle proprie istituzioni e gran parte della “vita sociale” della nostra democrazia.

Dubitare di questo presupposto, rende, di fatto, del tutto inutile l’istruzione obbligatoria, e tutti gli impegni politici che plasmano una parte molto importante della nostra vita (dall’asilo all’università).

Riconoscendo dunque come valore socialmente condiviso l’importanza che la cultura ha per la nostra collettività, resta da capire come fare della cultura un reale strumento evolutivo.

Chiaramente, il concetto di cultura è talmente ampio che necessita di semplificazioni e categorizzazioni. È cultura lo sport, YouTube, il metaverso. Sono cultura i premi aziendali, le opere d’arte e i prodotti seriali. È cultura l’automobile come è cultura la sigaretta elettronica.

In questa riflessione, tuttavia, ci si riferisce alla cultura come all’insieme di opere e conoscenze istituzionalmente riconosciute, anche quando non istituzionalizzate.

È quindi cultura, ai sensi di questa riflessione, la produzione di saggi, romanzi, racconti brevi e poesie, la produzione di qualsivoglia brano musicale, la produzione di video e di immagini che abbiano un valore anche simbolico, la creazione di sculture, installazioni e qualsivoglia prodotto riconducibile all’espressione artistica, che ne segua i canoni o che si ponga in dialogo-contrasto con essi. È cultura la danza, il teatro, la lirica.

Come possono questi elementi servire come leva evolutiva per la nostra società?

La dimensione più ovvia, ma spesso trascurata, è che questi elementi vengano nei fatti considerati come recanti un valore per la società stessa. Non ha molto senso affermare che la cultura sia un pilastro per la nostra democrazia se poi nessuno fruisce cultura. Nessuno potrebbe sostenere che il genere cinematografico “bollywood” sia uno dei capisaldi della nostra cultura. Perché non lo produciamo, né lo guardiamo. Se quindi nessuno legge Italo Calvino, ad esempio, ma se ne studiano soltanto le parafrasi sulle antologie, Italo Calvino smette di essere cultura e diventa semplicemente “nozione di base”.

Altro elemento centrale è che tali forme culturali siano espressioni di valori che vengono concretamente condivisi con altre persone. Se nella riflessione precedente la base di analisi era la società nella propria interezza, in questo caso il criterio è diverso, perché si tratta di una serie di valori (estetici, ma anche etici) che vengono condivisi attraverso un determinato prodotto culturale. Riprendendo il caso di “bollywood”, il genere, pur non essendo una rappresentazione realistica del nostro Paese, può però trovare tra i nostri cittadini un insieme di seguaci che ne condividono l’estetica, e l’insieme di valori che nei film di tale tipologia di “genere” trovano rappresentazione.

In altri termini, non dobbiamo rischiare di confondere la cultura con le “rappresentazioni del nostro Paese”. In Italia questa distinzione è sfumata, perché quando pensiamo a qualcosa che rappresenti l’Italia pensiamo al Colosseo, agli Uffizi, all’Arena di Verona, a Machiavelli, a Leonardo. Può essere quindi più semplice fare un paragone con un altro Paese. Prendiamo ad esempio la Svizzera. Quando si pensa alla Svizzera per prima cosa viene in mente la ricchezza, le banche, la neutralità. Questi temi sono sicuramente un elemento culturale (in senso ampio) rappresentativo, ma di certo non è questa la produzione e la fruizione culturale più diffusa nel Paese.

Infine, la cultura è tale se crea un confronto. Una riflessione. Una esperienza che consente di poter riflettere su alcuni elementi della nostra vita, della nostra persona, dei nostri legami e via via in crescendo, del nostro sistema economico, politico e sociale. Malgrado siano in molti a trovarsi in imbarazzo quando si tratta di definire la cultura, è comunque un dato di fatto che la differenza tra la fruizione culturale e, ad esempio, un mobiletto, e che salvo rare eccezioni il mobiletto non ci accresce intellettualmente o spiritualmente, come invece potrebbe fare la lettura di un qualsiasi romanzo. Anche del più brutto, direbbe Foucault.

Ritorniamo alle riflessioni iniziali: Sgarbi citava l’importanza di Renzo e Lucia, e il fatto che ci sia una profonda difficoltà a condividere con gli alunni le ragioni intime e la ricerca di bellezza che sono proprie di quell’opera.

Estendendo la visione, tuttavia, è possibile inquadrare la questione in uno scenario più ampio. Esistono, al di là del mercato musicale, e dei social, artisti italiani che siano rappresentativi della cultura italiana, e che siano al tempo stesso rappresentativi dei valori delle generazioni che vorremmo educare alla bellezza?

Il punto è cruciale, perché è evidente che si sia creato un importante iato tra la cultura istituzionalizzata e la cultura fruita. E che non riguarda soltanto gli stili, ma anche i media, le modalità di fruizione e il senso ultimo di quelle creazioni.

Di fatto, ci troviamo di fronte ad frattura generazionale che è necessario distinguere dal famoso gap generazionale cui siamo abituati a pensare. Non si tratta di una frattura di continuità, come è stato tra le correnti artistiche che accusavano le precedenti di essere ormai morte. È una frattura che si gioca su un terreno completamente differente.

Gli impressionisti utilizzavano, in modo evidentemente molto diverso, un linguaggio che era lo stesso degli accademici. Jimi Hendrix utilizzava, in modo molto diverso, uno strumento che era incluso anche all’interno di molte composizioni più tradizionali. Prima di lui era Duke Ellington, e tanti, tanti altri.

Oggi è invece una differenza tra linguaggi. Nel quotidiano non sono i libri, ma gli smartphone. Si vedono più serie Tv che film, probabilmente, le opere d’arte si guardano su Instagram. Generalizzazioni, certo. Ma ai fini di questa riflessione, questa generalizzazione, di per sé un po’ populista, ha un ruolo costruttivo. Perché lascia emergere un aspetto che raramente viene affrontato nel dibattito.

È possibile, in altri termini, che a differenza di quanto accaduto in passato, oggi ci troviamo di fronte al fatto che quelle forme di cultura cui attribuiamo la massima attenzione siano per le nuove generazioni, semplicemente “mute”, o meglio, siano “straniere” come straniera può essere una poesia in tedesco per chi non lo conosce?

Una condizione di questo tipo, implicherebbe, semplicemente, un trasferimento di senso dall’opera all’intermediario, che ne è l’interprete. Il traduttore. Una condizione che impone dunque a quel traduttore, che nella conversazione è l’insegnante, non solo di trasmettere il “senso” di una poesia, ma anche di farlo con così tanta capacità di invogliare gli alunni a studiare il tedesco per poterla comprendere.

Discorso differente potrebbe essere quello di comprendere quali, tra le opere contemporanee possano essere rappresentative. Può essere, un videogame, l’erede di un romanzo? Possono essere rintracciate in una serie Tv le stesse premesse e gli stessi impeti che sono stati posti alla base di un racconto breve?

Può il consumo di musica in streaming essere considerato una fruizione culturale che sostituisce la musica classica? Può la street-art rappresentare un canale di accesso all’arte?

Può un progetto di quei famosi e momentaneamente falliti Nft rappresentare un’espressione di valori molto più condivisi di quanto possano fare le opere di Pistoletto?

Una delle provocazioni meglio riuscite dell’attuale Sottosegretario alla Cultura è stata la curatela del Padiglione Italia durante una delle ultime Biennali, che ha praticamente mostrato come la produzione artistica italiana si sia completamente allontanata dalla società, e come gli stessi artisti, intellettuali, architetti, presentino una ben povera conoscenza in ambito artistico contemporaneo nazionale.

Queste riflessioni trasferiscono l’intera riflessione sinora condotta dal sistema scolastico a quello “produttivo”.

Una recente ricerca ha indicato quali siano gli artisti italiani viventi più riconosciuti all’estero. I più giovani di essi sono nati nel ’73. Basquiat aveva l’età di un liceale quando ha conosciuto Andy Warhol. Rimbaud era anche più piccolo. Artisti che hanno prodotto forme espressive proprie, in grado di intercettare le tensioni culturali della propria generazione.

Sinora lo schema è sempre stato piuttosto elementare e, per così dire, territoriale. Da un lato la società adulta, con i propri valori e le proprie espressioni. Dall’altro i “giovani”, che “lottavano” per poter vedere affermato il proprio “spazio”. In questo scontro, c’è sempre stato un elemento comune, e vale a dire uno “spazio” da conquistare.

In questo scontro, emergevano le differenze, e anche il dialogo.  Scontro che, oggi, tra le tante motivazioni possibili, è possibile non avvenga perché non c’è più quello spazio comune.

Pak, il cripto-artista che ha raggiunto la fama per avere venduto un’opera per circa 92 milioni di dollari, non dialoga né si contrappone agli scultori. È in uno spazio differente.

Il punto è che sinora abbiamo affrontato queste modalità creative chiedendoci se questo fosse o meno il futuro. Ma è la domanda sbagliata.

Ciò che bisogna chiedersi, se vogliamo agire in modo “attivo”, è se sia o meno possibile che esistano delle forme che vengono percepite come cultura e che sviluppano nelle generazioni che si annoiano in modo mostruoso a sentir parlare della peste, quella stessa profonda sensazione di aver compreso qualcosa in più di sé stessi e del mondo in cui vivono, così come per molti è stato Beuys?

Se esistono, cosa si può fare per stimolarne la produzione, la diffusione, il dialogo? Cosa si può fare per far sì che agiscano nella medesima dimensione spaziale di quella in cui abitano i Promessi Sposi, la Divina Commedia, Metropolis, le sculture di Giacometti?

Come possiamo far sì che questa ricchezza culturale non venga dissipata nello scrolling compulsivo?

Iniziamo con chiederci cosa sia realmente la cultura contemporanea. E come migliorarla. E come fare in modo divenga una forma di dialogo e di scontro per far emergere differenti visioni del mondo.

Da lì, comprendiamo quali siano i modi per comprendere quei valori, e compresi, come creare corrispondenze tra le opere che, nei secoli precedenti, sono state create proprio per rispondere a quei valori.

Produzione, diffusione, affermazione, insegnamento. Questa è la logica.

Avere la presunzione di poter rendere la nostra società migliore con una cultura con qualcosa di morto, che più nessuno identifica come una parte importante del proprio percorso di crescita, significa non aver compreso il senso della cultura.

Trasformiamo quelle accuse reciproche in cooperazione. Che i perdenti smettano di leccarsi le ferite ed inizino a coordinare i propri sforzi per capire almeno quale sia il campo di battaglia.

Iniziamo da qui.


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