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Allargamento, trattati e guerre. Il pragmatismo che serve all’Ue, secondo Villafranca

Meloni sa che in Ue serve del sano pragmatismo, e questo sta esercitando con la consapevolezza che ci sono trattati da rispettare, spiega il direttore degli studi Ispi. La crisi? “Questo è sempre stato un motto nascosto dell’Unione europea, cioè non si spreca mai una buona crisi”

Sulla difesa comune e sulla sicurezza manca la volontà politica di procedere in seno all’Ue, dice a Formiche.net Antonio Villafranca, direttore degli studi Ispi, che ragiona non solo sulle sfide che attendono la nuova governance europea, ma anche sul modus con cui imboccare una strada federale.

Trattati da riformare, sostegno a Kiev, allargamento: che 2024 sarà per l’Unione europea?

Direi anzitutto un 2024 di attesa, perché essenzialmente non credo che verranno prese decisioni rilevantissime da qui alle prossime elezioni europee, se non addirittura fino alla nomina delle nuove alte figure istituzionali dell’Unione europea, ovvero il presidente della Commissione e del Parlamento. Vediamo quali saranno le scelte, vedo solo spazio per qualche accordo che verrà fatto ex-ante, cioè quello sulle risorse extra da assegnare al bilancio comunitario che poi in realtà sono poco più di 20 miliardi: non una cifra ingentissima. Aggiungo, convincendo Orban, anche l’accordo per gli altri aiuti finanziari e in armi per l’Ucraina. Può darsi che su questi due temi un accordo venga stretto, ma per quanto riguarda le grandi decisioni nulla verrà fatto fino a quando non si insedierà la nuova Commissione.

Più coraggio e meno ambiguità, viene chiesta da più parti all’Ue: quale potrebbe essere una via progettuale per iniziare a pensare a riforme decisive?

Io credo che bisognerebbe anzitutto partire da quella che è la realizzabilità degli obiettivi che ci si è già posti. Il problema è che quando ci si confronta con il merito, tanto sull’ambiente quanto sul digitale, ci si accorge che le risorse non sono sufficienti per raggiungere quegli obiettivi. Un primo problema serio che ci si dovrebbe porre è quello delle risorse, tanto più che è stato approvato il nuovo Patto di stabilità e crescita: è chiaro che soprattutto i Paesi a più alto indebitamento non possono ricorrere a risorse nazionali, se non a fronte di un taglio probabilmente anche politicamente insostenibile nella spesa corrente, come sanità e pensioni. Quindi, la prima questione vera da porsi è come, rispetto agli obiettivi ambiziosi che ci siamo posti, riuscire a trovare le risorse per farlo.

Pubblico e privato insieme?

Anche attraverso il completamento del mercato unico dei capitali sarebbe già un bel passo avanti. Poi c’è tutta la sfera della sicurezza e dell’allargamento che sono legate a quella della governance, cioè come si prendono le decisioni. Sul punto non è stato fatto nulla e non vedo alcun significativo passo avanti verso una vera politica estera e di sicurezza comune. Sulla carta c’è il piano per creare questo fantomatico esercito europeo da 5000 risorse entro il 2025. Ricordo che quando Putin accerchiava l’Ucraina prima dell’invasione lo faceva con circa 190.000 soldati: rendiamoci conto dei numeri e delle differenze che ci sono. Al momento manca la volontà politica dei capi di Stato.

Un’accelerazione potrebbe venire da ulteriori fasi di crisi? Ad esempio la guerra in Ucraina, la seconda guerra che vediamo a Gaza e soprattutto se dovesse cambiare la leadership alla Casa Bianca.

Questo è sempre stato un motto nascosto dell’Unione europea, cioè non si spreca mai una buona crisi. Il problema è che veramente non dobbiamo augurarci una nuova crisi, una nuova pandemia, nuove guerre o un inasprimento delle crisi attuali o la sconfitta dell’Ucraina per prendere poi delle decisioni che facciano fare dei passi avanti. In verità un passo avanti notevolissimo è stato compiuto dopo la pandemia con una gestione comune dei vaccini e del Next Generation Eu, però non possiamo attendere il prossimo cigno nero perché si faccia qualcosa in più. Il rischio è quello di un’Europa che torna alla politica dei piccoli passi che purtroppo non fa progredire.

Da un punto di vista politico valoriale, la patria europea non è in contraddizione con con la patria nazione?

Non mi piace molto usare la parola patria, soprattutto se legata al contesto europeo: non esistono gli Stati Uniti d’Europa, al momento non ci sono. Poi se uno è federalista ovviamente auspica che questa sia la direzione di marcia. Ma non è la situazione in cui ci troviamo adesso, io preferisco piuttosto definire un concetto di interesse nazionale di tutti i Paesi membri nel contesto internazionale. Oggi con nuove guerre in atto e con anche una situazione economica che va sgretolandosi grazie ad una segmentazione dei mercati c’è bisogno di più Europa con maggiori risorse.

Vittorio Emanuele Parsi dalle nostre colonne ieri ha detto che senza una Europa più coesa c’è il rischio di un declino inarrestabile per l’Ue. Ha ragione?

Mi sembra abbastanza condivisibile e un po’ ovvio.

L’allargamento ai Balcani senza le dovute riforme porta in dote dei rischi anche amministrativi?

Se l’Unione europea vuole veramente arrivare a oltre 30 o addirittura avvicinarsi ai 35 Paesi membri deve pensare a come si prendono le decisioni in maniera diversa. La questione dell’allargamento mi sembra un po’ surrettizia, inclusa anche la questione dell’allargamento a Ucraina e Moldavia: avrebbero un altissimo valore simbolico ma anche politico, perché si manderebbe un segnale molto chiaro a Putin. Gli si dice che il futuro dell’Ucraina è dentro l’Unione europea in maniera, si spera, inequivocabile. Il punto è quanto siamo credibili noi nel processo di allargamento quando ci sono Paesi che aspettano a volte anche decenni per i negoziati e con cui le negoziazioni sono quasi chiuse. E allora la vera questione che ci dovremmo porre, senza ipocrisie, è quella di quanto veramente vogliamo l’allargamento.

Politico giorni fa ha citato il numero degli incontri tra Ursula von der Leyen e Giorgia Meloni, mentre un anno fa qualcuno ipotizzava addirittura l’uscita dall’euro dell’Italia guidata da un esecutivo di destra. Come commentare la politica europea del governo in questo anno di vita?

Qualsiasi governo eletto sa che deve avere a che fare con l’Unione europea e non solo perché ci sono dei trattati da rispettare, ma anche perché è chiara a qualsiasi leader politico che per vincere alcune battaglie nel mondo e per continuare a contare non basta neanche essere Germania, figurarsi se sei uno Stato piccolo o altamente indebitato. Quindi c’è sano pragmatismo, direi.

@FDepalo



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