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I cinesi (non) fanno gli indiani nel Mar Rosso

La Cina evita di cooperare sulle attività di sicurezza marittima nell’area che connette Europa e Asia. Lo fa per interesse a smarcarsi dalle operazioni americane, mentre l’India aumenta il suo impegno

“Questo è un convoglio della Marina cinese dell’Esercito di Liberazione Popolare (Pla), se avete bisogno di assistenza, contattateci tramite il canale VHF 16. Con 15 anni di missioni di scorta nel Golfo di Aden e nelle acque al largo della Somalia, la Marina cinese ha ricevuto oltre 1.600 chiamate attraverso il Canale 16 e ha scortato oltre 7.200 navi. Sempre pronti per la missione!”. Dice davvero così il Global Times diffondendo una réclame che Pechino ha sponsorizzato. Un video che esalta le capacità dei Marines cinesi, pubblicizza gli assetti schierati (anche nella base di Gibuti), spinge una narrazione da potenza responsabile per la Cina.

“Guarda, la Cina è tutt’altro che responsabile. Sfrutta la situazione incandescente nel Mar Rosso e Mar Arabico a suo favore, anche se ne paga il prezzo. Non rispondono nemmeno alle chiamate di soccorso, nonostante abbiano navi da guerra e una base navale lì (a Gibuti, ndr). Non hanno neanche aiutato la loro Maersk Gibraltar che batte bandiera di Hong Kong”. Questa è invece la risposta di una fonte attiva nel mondo della logistica marittima della regione, che risponde su WhatsApp sollecitata con l’invio del link al video rilanciato del Global Times. La nave di cui parla è una delle tante finite in queste settimane sotto gli attacchi missilistici degli Houthi (e, almeno in parte, degli iraniani, stando a quel che dice Washington).

L’assenza della Cina dalle attività di sicurezza marittima sembra allinearsi con un comportamento atteso. Da un lato Pechino non vuole rischiare di essere vista come rispondente a una chiamata di responsabilità di Washington, perché non vuole sembrare assoggettata, tanto meno intende dare a una parte di mondo (il Global South) l’impressione di essere impegnata in iniziative confondibili con un qualche sostegno a Israele (e siccome gli Houthi che attaccano le navi nel Mar Rosso dicono di farlo come forma di appoggio ai palestinesi, il rischio c’è).

Inoltre, e qui si apre il primo elemento di una scenario più ampio, la Cina non intende sembrare aggressiva con l’Iran — che il Pentagono accusa direttamente di responsabilità nella destabilizzazione marittima — perché è un alleato, tramite cui Pechino ha segnato il suo principale successo politico-diplomatico in Medio Oriente, la mediazione finale per la riapertura delle relazioni Riad-Teheran. Poi, secondo aspetto di questo scenario, il governo cinese non vuol correre il rischio che dalla risposta all’emergenza si crei un precedente per un maggiore coinvolgimento negli affari securitari regionali — impegno che la Cina non è ancora pronta a sostenere e lascia ad appannaggio e onere statunitense. Infine, Pechino potrebbe accettare di pagare le spese degli scombussolamenti in atto nell’Indo Mediterraneo, considerando che essi stanno alterando piani di integrazione e connessione tra Europa e Asia, che coinvolgono il Medio Oriente e che fanno parte anche delle deviazioni immaginate dall’Occidente come forme di de-risking dalla Cina.

Voce ai cinesi

Sulla posizione di Pechino, vale sempre la pena ascoltare gli esperti locali, con la consapevolezza che la Cina non è un Paese libero e quanto viene espresso va sempre tarato dalla narrazione, dall’ideologia e dalle limitazioni retoriche. “La base cinese a Gibuti è solo una base di supporto logistico per la fornitura di materiali in acque lontane”, ha detto Liu Qiang, vicepresidente e direttore del comitato accademico dello Shanghai Center for RimPac Strategic and International Studies, tra i docenti che insegnano strategia marittima al Pla. Liu parlava su Guancha, media nazionalista di Shanghai a controllo privato.

Ancora: “La base cinese a Gibuti non ha la funzione o la missione di effettuare attacchi militari nell’area circostante, ma solo di proteggere il porto e la sicurezza delle vicinanze del porto. […] In origine, la creazione di basi militari all’estero è stata una questione estremamente delicata e nel corso degli anni è stata indicata come un argomento a favore della ‘teoria della minaccia cinese’. Pertanto, non useremo questa base, ma solo come punto di rifornimento logistico all’estero, il che è molto chiaro”. Di più: “Quando la Cina ha costruito questa base, era il periodo in cui i pirati somali erano al loro apice e la posizione geografica della base era molto importante. La nostra Marina partiva dal Mar Cinese Meridionale attraversando lo Stretto di Malacca, l’Oceano Indiano e il Mar Arabico, per arrivare a scortare le navi nel Golfo di Aden, e anche se avevamo navi di rifornimento al seguito, avevamo bisogno di attraccare e rifornirci quando necessario.

Tutto piuttosto chiaro. In definitiva, spiega Liu, “questa base non ha visto ampliate le sue funzioni per altri compiti esterni, ma man mano che gli eventi si svolgeranno, condurremo una valutazione e un’analisi per determinare se abbiamo bisogno di assistere nel dispiegamento di navi da guerra per la scorta e simili”.

Problemi tecnici

Nella realtà c’è anche un problema pratico, spiega una fonte militare europea: “La Pla-N (la marina cinese, ndr) si sta addestrando molto è vero, ma non è ancora preparata adeguatamente per il salvataggio di navi commerciali sequestrate e la lotta contro terroristi e pirati, anche perché non interviene quando ci sono situazioni delicate e non si può restare fermi all’addestramento. Scordatevi che adesso possano essere in grado di fare cose simili a quelle che facciamo noi europei o ancora di più la US Navy”.

A Gibuti è attualmente presente la 45esima Flotta alla guida della Escort Task Force: con compito di proteggere le navi commerciali, è partita da Qingdao il 12 settembre per assumere il controllo delle missioni di scorta nel Golfo di Aden e nelle acque al largo della Somalia. È composta da due fregate (Type 054A e Type 52D) e una nave da supporto logistico e rifornimento. Va poi detto che con i cacciatorpediniere americani ed europei impegnati nelle attività di protezione reale “in linea di vista”, le informazioni che l’intelligence cinese può raccogliere sono molte, fa notare la fonte militare. Tanto più in questo momento in cui quegli assetti stanno rispondendo con i loro sistemi anti-aerei agli attacchi.

Mentre la Cina è rimasta ferma (se non nella propaganda, in cui ha anche accusato gli americani e gli occidentali per il caos in corso), un’altra potenza asiatica ha invece reagito aumentando il coinvolgimento nelle attività: l’India. E forse non è un caso se New Delhi, rivale di Pechino, abbia scelto di essere presente — mobilitando tre cacciatorpediniere (Kochi e Kolkata prima, Marmugao negli ultimi giorni) e aerei da pattugliamento). Sia perché un cargo è stato recentemente colpito davanti alle coste di Veraval e il caos si è espanso fino al centro dell’Oceano Indiano, sia perché l’India vuol dimostrare di essere più responsabile di Pechino nel far fronte a certe crisi.

Nei prossimi giorni la Maersk, gigante delle spedizioni marittime, dovrebbe ricominciare a seguire la rotta per Suez, perché rassicurata dalla presenza navale americana. Forse anche la cinese Cosco Shipping ritornerà su quella via, traendo benefici da uno schieramento di sicurezza a cui Pechino non vuol partecipare (e con cui non intende coordinarsi).



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