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Dopo Gaza, il terrorismo è meno silente. Il report di Med-Or analizzato negli Usa

Il report sul terrorismo che Andrea Manciulli ha curato per Fondazione Med-Or è stato presentato dal Middle East Institute. Nell’analisi, presentata il 5 ottobre, si prevedeva la possibilità di un attacco su larga scala (tattico, strategico, comunicativo) come quello di Hamas. Con il proselitismo e gli attacchi tornati di moda, da Parigi alle Filippine, occorre fare prevenzione insieme a repressione, concordano i panelist Blout, Lister, Vidino e Katulis

“Quando abbiamo pensato, un anno fa, a questo report, abbiamo deciso di parlare di ‘nemico silente’, perché notavamo che c’era un calo dell’attenzione generale riguardo al fenomeno terroristico, ma esso continuava a muoversi, strisciare, meno visibile che ai tempi dei grandi attentati come quello del Bataclan, ma non per questo meno preoccupante”, spiega Andrea Manciulli, esperto di terrorismo e attualmente direttore delle Relazioni Istituzionali della Fondazione Med-Or, parlando del lavoro da lui curato “Il nemico silente: presenza ed evoluzione della minaccia jihadista nel Mediterraneo allargato”.

Non è un caso se ieri il report è stato il centro delle riflessioni di un webinar organizzato dal Middle East Institute (Mei) di Washington, a cui hanno partecipato alcuni tra i principali esperti di terrorismo al mondo, come Emily Blout (studiosa delle intersezione tra media e sicurezza nazionale), Charles Lister, (direttore del Syria Program del Mei), e Lorenzo Vidino (direttore del Center for Cyber and Homeland Security’s Program on Extremism della George Washington University). A moderare l’evento, il vice presidente del Mei, Brian Katulis. Basta pensare che il lavori di Maciulli e Med-Or è stato presentato ufficialmente il 5 ottobre, due giorni prima del mostruoso attacco di Hamas contro Israele — attacco senza precedenti, che non solo ha riaperto una stagione di guerra a Gaza, ma è destinato a segnare i futuri equilibri di potere nel Medio Oriente.

L’azione su larga scala e le sensibilità in gioco

Un attacco su larga scala, che mescolasse azione tattica, strategica e comunicativa era una delle possibilità ipotizzate nel report. E non è solo questa capacità predittiva che ha attirato l’attenzione del think tank americano. Mentre la campagna operativa sul campo non si è mai interrotta, il terrorismo sta tornando tra le principali attenzioni statunitensi di sicurezza nazionale anche a livello più pubblico e mainstream.

Recentemente il dipartimento di Stato ha pubblicato il rapporto informativo sul 2022: un’analisi quantitativa in cui si indicano oltre ventimila morti per attacchi terroristici nel mondo, a cui aggiungere 12mila feriti e quasi cinquemila persone rapite. State Department conferma uno dei punti di analisi del report di Manciulli: il Sahel è il centro di espansione del fenomeno. L’esperto italiano spiega che l’area del Sahel e Africa Subsahariana vede una forte crescita del terrorismo dovuta al cambiamento climatico, perché esso ha comportato un depauperamento delle condizioni di vita nella regione creando un effetto esistenziale che ha portato, soprattutto i giovani, ad accedere alle predicazioni radicali e trovare nei gruppi armati fonti di guadagni e risposte al disagio socio-economico (emblematica la vicenda che riguarda i pastori fulani attorno al Lago Ciad).

In questo quadro l’immigrazione verso l’Europa diventata forma di reddito, e si collega alla serie di traffici di vario genere che caratterizzano l’area, come per esempio quelli di stupefacenti che partono dal Sudamerica per arrivare in Mauritania e, transitando verso il territorio saheliano, entrano poi in Europa dai Balcani. E a proposito di Balcani, il report sottolinea come la crescita del mercato anomalo delle armi connesso alla guerra in Ucraina e le varie narrazioni collegate al confitto stanno comportando l’attivazione delle cellule cecene. Ne esce una riscontrata crescita della radicalizzazione nell’area che va dall’Asia Centrale al Caucaso e ai Balcani.

Nelle settimane appena dopo l’attacco di Hamas, la sospensione dell’accordo di Shengen con la Slovenia è stata una mossa di anti-terrorismo per l’Italia, perché la rotta balcanica è quella che sta diventando più sensibile. D’altronde i principali arresti di importanti predicatori attivi in Italia negli ultimi due anni hanno riguardato figure note che venivano dai Balcani. “E la Nato è messa storto pressione, perché i predicatori si nutrono di risentimenti che attingono anche al periodo della guerra nell’ex Jugoslava, e giocano su narrazioni spinte anche tramite la disinformazione russa. Qualcosa di simile avviene in Nordafrica e Sahel, legandosi all’intervento dell’alleanza in Libia per rovesciare il regime di Gheddafi”, aggiunge Manciulli — che ha speso anni di attività parlamentare sul tema del terrorismo, lavorando sull’evoluzione della minaccia jihadista e sugli strumenti di contrasto e prevenzione, un’esperienza arricchita anche dal ruolo di capo della delegaIone parlamentare italiana alla Nato, dove è anche stato Rapporteur del report “Daesh: the challenge to regional and international security”.

Prevenzione, non solo repressione

A questo complesso contesto, in cui i gruppi terroristici classici fondono interessi e attività con le bande del contrabbando, attecchiscono dai risentimenti storici e vengono sobillati dalla disinformazione (punto di interesse ulteriore per le attività di contrasto organizzate dall’asse transatlantico), va aggiunto come accennato l’effetto sul proselitismo prodotto da quanto succede a Gaza. Una “effervescenza del jihadismo mediatico e comunicativo”, come la definisce Manciulli diffusa a livello internazionale, non solo nel Sahel. E gli effetti negli ultimi giorni si sono visti da Parigi (dove un attentatore si è mosso perché, stando alle sue dichiarazioni, non ne poteva più di “vedere i musulmani morire”, specialmente a Gaza, dove la Francia è “complice” di Israele) alle Filippine (dove domenica una bomba è esplosa in una chiesa cattolica uccidendo quattro persone).

Le organizzazioni terroristiche beneficiano delle divisioni politiche e le utilizzano nella loro propaganda: è indubbio che lo Stato islamico benefici a livello internazionale adesso della guerra a Gaza, spiega Lister. “L’idea che se i terroristi sono orientati a livello locale e stanno mettendo radici su base locale in altre parti del mondo, allora significa che non sono una preoccupazione, la ritengo fuori luogo e un grande passo falso strategico. Ci sono aree nel mondo in cui l’Isis chiaramente non rivendica la responsabilità […] perché riconosce che le valutazioni dell’antiterrorismo occidentale si basano in gran parte sul monitoraggio delle rivendicazioni di responsabilità, non sugli attacchi effettivi sul terreno”. Ma un conto è combattere ciò che avviene sul terreno, un altro è combattere il movimento, che ha capacità di diffondersi anche oltre il terreno. Grazie a Internet per esempio.

Si apre lo scenario della prevenzione. Ammesso, come spiega Vidino, che c’è un controllo geopolitico sulle dinamiche terroristiche — “Sono sempre gli eventi geopolitici esterni a determinare la dimensione e la direzione delle bolle [di proselitismo], e ogni volta che vediamo un grande evento esterno, allora questo movimento [jihadista] cresce di dimensioni” — il punto è cosa fare contro la diffusione di certe istanze? “Sulla prevenzione [del terrorismo] parliamo di un nemico silenzioso, e allora sappiamo che il modo migliore per contrastare il silenzio è parlare. Possiamo prevenire questo tipo di comportamento e reclutamento terroristico parlando di come questi terroristi reclutano”, suggerisci Blout. Ma “le piattaforme in cui avviene il reclutamento di terroristi sono protette dalla responsabilità dalla sezione 230 del Communication Decency Act”, aggiunge, e “non vi è alcun incentivo a lavorare in modo globale con i governi per identificare le persone suscettibili alla radicalizzazione”.

Per Manciulli, la vera evoluzione negativa è l’emergere di giovanissimi che vivono nella “jihadisfera” online, dove nonostante alcune misure di contrasto e prevenzione messe in atto dai social network, molto materiale di propaganda è comunque ancora disponibile, rendendo comodo l’auto indottrinamento — anche come forma di fuga dai problemi socio-economici e sfogo dei risentimenti collegati. È tutto molto differente dalla cultura profonda islamica che vivevano i jihadisti in epoche precedenti: ora i ragazzi, anche giovanissimi, risentono di un’attrazione simile a una moda per il jihadismo, come dimostrano le simpatie nei confronti delle istanze jihadiste cresciute dopo l’attacco di Hamas. È vero che questa tendenza si fonde al controllo geopolitico delle dinamiche terroristiche di cui parla Vidino, ma spesso appare evidente che dietro a coloro che condividevano, osannandoli, le immagine dei miliziani di Hamas che hanno compiuto la strage il 7 ottobre non c’era una profonda strutturazione ideologica.

“Per questo la sola repressione non basta, ma serve prevenzione. Servirebbe un doppio registro legislativo: certamente è necessaria una legge repressiva per chi commette un reato, ma anche una possibilità di azione preventiva per riportare su strade moderate chi accede a certe istanze per ragioni diverse. Il nemico è meno silente se preveniamo. E dobbiamo farlo perché è l’Europa il cuore di queste attività, avvolta da crisi geopolitiche ai confini, come la guerra a Gaza e in Ucraina, e oggetto di dinamiche come l’immigrazione e gli attacchi dei Paesi rivali sul piano della disinformazione”, spiega Manciulli.


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