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Tutte le ragioni più profonde della sconfitta sull’Expo 2030. La versione di Polillo

Avere consapevolezza del proprio passato, delle luci e delle ombre che lo hanno caratterizzato, è il primo passo da compiere nel tentativo di recuperare una credibilità perduta nei confronti del Sud globale. Condizione necessaria ma non sufficiente. Poi ci vuole l’Europa. Difficile non concordare con l’ultimo monito di Mario Draghi quando dice che per l’Europa questo “è un momento critico e speriamo che ci tengano insieme quei valori fondanti che ci hanno messo insieme”

Magari si fosse trattato solo di errori tattici. O di responsabilità diffuse, come ha cercato di evidenziare il Corriere della sera. Probabilmente ci sono stati gli uni e gli altri. Ma una simile tesi appare comunque consolante. Quando invece, per capire meglio, occorre rifuggire da atteggiamenti consolatori. Ma a monte della grande competizione per Expo 2030, sono elementi che, a prima vista, è difficile cogliere. Che invece, sono stati determinanti per il successo di Riad e la brutta sconfitta di Roma. Che non ha dovuto cedere le armi solo nei confronti della monarchia saudita, ma rispetto anche alla meno blasonata dirigenza di Busan. Seconda città della Corea del Sud, che vive soprattutto di turismo e di commercio, grazie al suo porto che si sviluppa sul delta del fiume Nakdong. Zone d’interesse: alcuni templi ed una gigantesca statua di Budda, alta oltre 21 metri. A costo di essere accusati di sciovinismo: qualcosa che non è minimamente paragonabile alla grandezza e bellezza di Roma. Eppure Busan ha ottenuto 29 voti, contro i 17 della Città eterna.

Avrà influito, tra le altre cose, il fatto che solo otto anni fa Milano aveva conquistato, con Expo 2015, il combattuto trofeo? E che nella storia di questa manifestazione, molto ambita a livello internazionale, un bis non si era mai verificato? Ma allora perché, a suo tempo, Virginia Raggi dal Campidoglio aveva insistito tanto? Una sua personale rivincita, ovviamente sostenuta dal Governo Conte, dopo essersi opposta alle Olimpiadi del 2016? Non sorprenderebbe, considerate le vicende di ordinaria follia che hanno caratterizzato quella legislatura, prima del passaggio del testimone nelle mani di Mario Draghi. Comunque sia, siamo ancora lontani dal capire le ragioni vere di una sconfitta, per quanto annunciata.

Dal 2009, all’indomani della crisi della Lehman Brothers, il Pil dell’Arabia Saudita è cresciuto del 57,7 per cento. Quello italiano solo del 3,7. Il che ha comportato un’alterazione profonda dei rapporti di forza tra i due Paesi. Oggi Riad è una potenza regionale che si contende la leadership del mondo musulmano con l’Iran e la Turchia. L’Italia, al contrario fa parte di un’Europa pallida che non riesce ad esercitare a livello mondiale, un ruolo corrispondente al suo peso economico. Non è tanto questione di mancata crescita del Pil, che semmai ne è una conseguenza. Quanto di una governance sfibrata in cui i singoli Paesi – soprattutto i maggiori – non riescono ad uscire dal ghetto di una visione particolaristica, destinata a risolversi nella negazione di un interesse più generale.

Quei 17 voti, contro i 27 Paesi che costituiscono l’Unione ne sono una diretta dimostrazione. Anche se si deve subito aggiungere che la proposta italiana era solo italiana. Non concordata preliminarmente con le altre Capitali europee. Di conseguenza destinata a non avere il necessario supporto. Quindi inutile recriminare. Chi è senza peccato scagli la prima pietra. ma il vecchio governo giallo rosso di colpe ne aveva a iosa. Che, con il trascorrere del tempo sono diventate sempre più evidenti.

Se si fosse seguita la strada della concertazione, probabilmente Riad avrebbe vinto ugualmente. Troppo squilibrato il rapporto di forze. La verità è che rispetto al Sud profondo l’appeal dell’Occidente non è più quello di un tempo. Il soft power della Cina e quello ben più devastante delle armi, che Vladimir Putin maneggia senza remora alcuna, ha prodotto una frattura profonda negli equilibri mondiali, dando nuovo vigore alle pulsioni anti colonialiste di un numero crescente di Paesi.

Basta recarsi in Algeria, nella più moderata Tunisia o nello stesso Egitto, per non parlare della Libia, dell’Iraq o della Siria, per averne la concreta dimostrazione. Mentre per quanto riguarda l’Africa Subsahariana, il susseguirsi di colpi di Stato, nella fascia del Sahel, ha una marcata giustificazione, anche se molte volte opportunistica, anti francese. Il relativo successo italiano, in alcune di queste aree, è proprio conseguenza di questo shift. Sostenuto da un sentimento collettivo, che si manifesta anche nei confronti del semplice turista.

Difficile dire quanto durerà questa luna di miele. Identificare l’Arabia Saudita con lo stimma dell’esecrabile assassinio di Jamal Khashoggi o l’Egitto con il caso Regeni può indurre a ripensamenti profondi. Che in Tunisia si stanno già manifestando, dopo le continue accuse, soprattutto da parte di esponenti della sinistra, nei confronti di Kaïs Saïed. Indicato come un bieco dittatore. In tutti questi casi prevale una visione eurocentrica che impedisce di cogliere la complessità dei processi storici, che sono tipici della realtà geopolitica di ciascun Paese. Quando, la stessa vicenda europea, nel divenire degli anni, ha avuto momenti esecrabili a partire dalle guerre che hanno insanguinato l’intero novecento. Senza dimenticare che l’olocausto fu fatto esclusivamente europeo.

Avere consapevolezza del proprio passato, delle luci e delle ombre che lo hanno caratterizzato, è il primo passo da compiere nel tentativo di recuperare una credibilità perduta nei confronti del Sud globale. Condizione necessaria ma non sufficiente. Poi ci vuole l’Europa. Nel momento in cui l’ombrello americano tende a chiudersi. Per ragioni di carattere oggettivo. Difficile allora non concordare con l’ultimo monito di Mario Draghi. Quando dice che per l’Europa questo “è un momento critico e speriamo che ci tengano insieme quei valori fondanti che ci hanno messo insieme”.

Di fronte ai cambiamenti ai quali si è accennato lo stesso “mercato europeo è troppo piccolo, ci sono tanti mercati e quindi le piccole imprese che nascono in Europa appena crescono o vendono o vanno negli Stati Uniti”. Per non parlare poi della necessità di “una politica estera coordinata perché i ministri degli Esteri si vedono ma non si mettono d’accordo”. Quando invece è necessario “iniziare a pensare che siamo italiani ed europei”. Pura lungimiranza? Basti guardare all’Africa dove le ex potenze imperialiste sono ormai fuori dai giochi. Forse vi potranno rientrare, ma solo sotto le insegne di una diversa bandiera ed una differente regia.

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