La trasformazione ufficiale del G20 in G21 risponde a un interesse degli Usa di riconquistare il sostegno dei Paesi africani e contenere il ruolo dei Brics che sembrano oggi un pericoloso aggregatore di interessi contrastanti con l’attuale assetto globale. L’analisi di Nicola Pedde, direttore dell’Institute for global studies e professore di Geopolitica dell’energia
Il diciottesimo summit del G20, tenutosi in India, è stato l’ultimo conosciuto con questo nome. Il prossimo incontro, infatti, grazie all’ingresso ufficiale dell’Unione africana, Ua, la nuova formula sarà quella di G21, con un passaggio del testimone al Brasile. Le priorità del G20 di Nuova Delhi sono state delineate dall’India attraverso la stesura di sei punti principali inerenti le questioni climatiche, le priorità per la crescita, gli obiettivi per lo sviluppo sostenibile, le trasformazioni tecnologiche, il ruolo delle istituzioni multilaterali e le questioni di genere.
Un fattore di grande importanza trasversale ai lavori del G20, tuttavia, è stato quello del cosiddetto Sud globale, con particolare riferimento alla dimensione del continente africano, da sempre sottorappresentato nelle dinamiche di incontro tra i Paesi più industrializzati del pianeta. In tale direzione si è inserita la proposta del presidente indiano Narendra Modi, antecedente all’avvio dei lavori del G20, di far entrare l’Unione africana nel sodalizio, aprendo in tal modo a una rappresentanza continentale unica dei Paesi africani.
Una scelta importante, poi suggellata dal parere favorevole di tutti i membri del G20 che tuttavia riflette posizioni solo in apparenza orientate a sostenere un ruolo autonomo dell’Africa in seno all’importante consesso internazionale. L’adesione dell’Unione africana al G20, e la sua trasformazione ufficiale in G21, risponde in primo luogo a un manifesto interesse degli Stati Uniti di riconquistare il sostegno dei Paesi africani attraverso una piattaforma comune di dialogo.
L’obiettivo è di impedire quella che è stata percepita a Washington come una diffusa deriva di numerosi Paesi del continente verso un più intenso rapporto con la Cina e con la Russia, attraverso una contestuale sempre più diffusa narrativa – soprattutto nell’area Saheliana e in Africa occidentale – di condanna per quello che i Paesi regionali percepiscono come una forma di neocolonialismo nel rapporto con gli Stati Uniti e soprattutto con alcuni degli Stati dell’Unione europea.
Per gli Usa, inoltre, l’adesione dell’Ua al G20 rappresenta uno strumento per contenere il ruolo dei Brics, che con le recenti nuove adesioni e il rilancio della politica africana soprattutto da parte cinese, rischia di diventare nella prospettiva di Washington un pericoloso aggregatore di interessi palesemente orientati a contrastare proprio il ruolo degli Stati Uniti e l’attuale assetto dell’economia globale.
La Cina ha sostenuto l’ingresso dell’Unione africana nel G20 per le stesse ragioni, cercando di sfruttare il gruppo dei Paesi che rappresentano le principali economie del pianeta come ulteriore aggregatore di interessi per sostenere le prerogative dei Brics e rafforzare il crescente legame con i Paesi del continente.
La Cina è consapevole di godere di una posizione di momentaneo vantaggio in numerose aree del continente africano di primario interesse occidentale, e intende sfruttare il consesso del G20 per consolidare il proprio ruolo e contrastare l’iniziativa statunitense ed europea atta a ridefinire le relazioni locali.
Il conflitto in Ucraina e la crisi in Medio Oriente hanno dimostrato come almeno metà del continente africano non condivida più – o almeno non condivida appieno – la posizione degli Stati Uniti e dell’Unione europea sulle linee generali della politica e dell’economia internazionale.
A dispetto di tale dimensione, tuttavia, l’ingresso dell’Ua nel consesso del G20 rischia di trasformarsi in nulla più di una simbolica presenza, senza alcuna capacità sostanziale di intervenire nel dibattito globale con attori caratterizzati da capacità economica decisamente più rilevante e da agende politiche in netto contrasto tra loro.
La stessa Unione africana manifesta palesi difficoltà a esercitare il proprio ruolo nel suo stesso ambito geografico di interesse, non riuscendo a porsi come reale interlocutore di un processo di crisi che interessa aspetti sempre più vasti della politica, dell’economia e della società africana.
Ed è quindi improbabile che possa svolgere un ruolo preminente e incisivo nell’ambito del consesso del G20, dove è chiamata a partecipare non già per esercitare un ruolo indipendente quanto piuttosto per porsi come camera di compensazione degli interessi sempre più divergenti e confliggenti di Stati Uniti e Cina. L’ingresso dell’Ua nel G20, inoltre, avrebbe dovuto essere preceduto da una fase di pianificazione del proprio ruolo in seno all’Unione stessa, per definire linee di interesse e posizioni comuni da esprimere all’interno del consesso dei Paesi industrializzati.
Attività che è invece mancata, rischiando di prefigurare un ruolo modesto e di seconda fila, in conseguenza delle non poche divergenze generali che sono emerse all’interno del sodalizio continentale, e che stentano a trovare una posizione comune anche nell’ambito delle questioni più urgenti, come dimostrato dall’Ecowas in occasione del colpo di Stato in Niger.
L’entusiasmo generale che a Nuova Delhi ha accompagnato l’ingresso dell’Unione africana al G20, pertanto, deve lasciare spazio a una più ragionata analisi di quello che potrà effettivamente essere il ruolo del nuovo membro in futuro, con il concreto rischio di incrementare la competizione geopolitica anziché portarla in direzione di una nuova e più rispondente linea d’azione a favore del Sud globale.
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