Non solo i tunnel sotterranei, ma l’intera striscia di Gaza sta diventando la tomba di Hamas. Profondamente divisa riguardo alle gravi responsabilità della mancata prevenzione dei massacri del 7 ottobre, su come procedere per tentare di liberare tutti gli ostaggi e per controllare l’espansione degli insediamenti, sulla radicale eliminazione del gruppo terroristico palestinese, Israele é invece unanimemente convinta che sia essenziale portare a termine la “eradication operation”.
Una sorta di Armageddon di Hamas, un’apocalisse di macerie, acqua e fuoco. Braccati dall’intelligence e dai soldati dell’ Israel Defense Forces, i capi e i miliziani di Hamas continuano a trincerarsi dietro la marea brulicante di palestinesi utilizzati come scudi umani. L’orrore e la disperazione delle immagini di Gaza e del martirio del popolo senza terra, superano in una sorta di classifica dell’inferno della guerra, l’impatto dei filmati delle battaglie storiche di Stalingrado e Okinawa e si avvicinano alle sequenze da fine del mondo di Hiroshima e Nagasaki.
Nonostante sia stata definita una tragica fatalità, l’uccisione di tre ostaggi israeliani colpiti a morte per errore nel quartiere di Shejaiya, a Gaza City, nei pressi di un covo di Hamas dai soldati di Tel Aviv, fa temere che il tempo dell’umanità sia agli sgoccioli. Le grida in ebraico e la bandiera bianca non sono bastati a evitare che un soldato israeliano, ha affermato il portavoce dell’Idf “si sia sentito minacciato e ha aperto il fuoco”. La tragedia nella tragedia degli ostaggi uccisi, avvenuta in un’area di intensi combattimenti, dove i miliziani islamici sparano in abiti civili e usano tattiche ingannevoli per tendere agguati, ha suscitato indignazione e proteste in Israele, ma non ha allentato l’onda d’urto dell’offensiva contro Hamas.
Secondo il quotidiano britannico Guardian, l’insistenza di Israele nei confronti degli Stati Uniti di aver bisogno di più tempo per sconfiggere Hamas, evidenzia la scoperta di una insospettata capacità di rigenerazione da parte della agguerrita fazione terroristica palestinese, armata e supportata dall’Iran. Il contesto internazionale, islamico e non, é stato al centro dei colloqui fra il governo di Tel Aviv e il Consigliere per la sicurezza nazionale dell’amministrazione Biden, Jake Sullivan che dopo l’approccio diplomatico del segretario di Stato Antony Blinken, ha assicurato a Benjamin Netanyahu, che fa finta di ignorare che la sua premiership è agli sgoccioli, un ulteriore apporto di intelligence e aiuti militari ma ha preteso una scadenza certa dell’offensiva, non oltre l’inizio delle primarie per la Casa Bianca.
Oltre all’impatto sull’opinione pubblica internazionale in generale e americana in particolare, Washington teme che le violenze di Gaza provochino un’onda d’urto nel mondo islamico e scatenino non soltanto attentati in Europa e negli Stati Uniti, ma anche attacchi alle rotte petrolifere e commerciali del mar Rosso e dello stretto di Suez. Dopo il lancio di missili dalle coste dello Yemen contro petroliere e portacontainer in transito, Usa, Europa e Nato hanno disposto l’invio nell’area del mar Rosso di una flotta militare della quale faranno parte anche unità della marina italiana.
L’obiettivo è quello di scongiurare il moltiplicarsi delle piccole e grandi apocalissi locali, come Gaza, lo Yemen, il Libano, il Kurdistan, la Siria e l’Afghanistan ed evitare che sommandosi contemporaneamente rendano incontrollabile la situazione. I più pessimisti sottolineano la considerazione del filosofo francese Claude Lévi-Strauss secondo il quale “il mondo é cominciato senza l’uomo e finirà senza di lui”. Per gli ottimisti invece, dopo l’ennesima fine del mondo non potrà che esserci la pace. Speriamo non quella eterna.