L’adesione del governo italiano al percorso del nuovo Patto di stabilità è strumentale. Poi saranno problemi del nuovo Parlamento e del governo che entrerà in carica. Il commento di Giuliano Cazzola
Giorgia Meloni è una combattente; non sarebbe mai capace di “marcare visita” per sottrarsi a un confronto con i media – e quindi con l’opinione pubblica – in un momento come l’attuale in cui si annodano tanti appuntamenti in cui sono quelle parole del presidente del Consiglio che chiudono – nel bene come nel male – una fase della politica italiana.
L’ultima presa di posizione pubblica di Meloni risale all’intervento polemico e risentito svolto alla Camera prima del vertice europeo del 13 e 14 dicembre. La premier non esitò ad affrontare il tema più delicato all’ordine del giorno del Consiglio. “Mancherei di onestà intellettuale – affermò – se non affrontassi per primo il tema che, anche se formalmente non all’ordine del giorno del vertice, in questo momento vede maggiormente concentrata l’Italia e che in ogni caso avrà ricadute molto importanti sulla tenuta e sul futuro dell’Unione. Mi riferisco ovviamente – proseguì – alla riforma del Patto di stabilità e crescita, sulla quale, come sapete, il governo è impegnato da mesi in condizioni negoziali certamente non semplici, mesi nei quali non abbiamo mai smesso di adoperarci per un approccio costruttivo e pragmatico che consenta finalmente di bilanciare la necessaria solidità dei bilanci nazionali, e la sostenibilità dei loro debiti pubblici, con l’indispensabile sostegno alla crescita e agli investimenti”.
Il contesto è quello noto: l’Unione era chiamata a tirare i remi in barca dopo gli anni del “liberi tutti” sul piano delle compatibilità finanziarie allo scopo di sostenere le comunità, le imprese e le famiglie dagli effetti della crisi sanitaria, prima, della guerra, poi con tutte le conseguenze sul piano delle fornitore energetiche e pertanto sulla tenuta del sistema produttivo e sulla qualità della vita delle persone. Occorreva trovare delle nuove regole oppure adattarsi al ripristino di quelle previste nel trattato di Maastricht, ammesso e non concesso che fossero ancora applicabili dopo decenni di deroghe e di aggiustamenti. La direzione di marcia, qualunque fossero le decisioni, era comunque chiara: a partire dal 2024 i governi sarebbero stati chiamati a rientrare nei ranghi sulla gestione dei conti pubblici e soprattutto a cavarsela da soli a piazzare sui mercati quei titoli di Stato che la Bce non avrebbe più acquistato “pronto cassa”, mentre l’Eurotower veniva investita del compito di frenare l’impennata inflazionistica attraverso la manovra sul tasso di sconto. E già dagli antri muscosi e dai fori cadenti della politica opportunista si parla di “ritorno dell’austerità” che se ci fossero delle alternative credibili rispetto ad una linea di condotta basata su regole sostenibili ma rigorose ed efficaci perché riconosciute necessarie per una crescita dell’economia.
Sappiamo bene che la conversione di Meloni sul terreno del rigore è recente e non ancora assimilata del tutto. La premier ha quindi voluto sempre mettere la mani avanti ribadendo durante la discussione sul nuovo Patto di stabilità che il suo governo non avrebbe assunto impegni che il sistema Italia non sarebbe stato in grado di sostenere e quindi di adempiervi. Fino qui tutto ha proceduto secondo logica. Pertanto considerate le premesse e valutato il quadro di impegni che le nuove regole prevedono sul rientro dal debito a regime, purché siano garantite le tappe di avvicinamento anno dopo anno, ci sentiamo legittimati a ritenere che quel percorso sia considerato sostenibile per l’Italia.
Ricordiamo in sintesi i punti dell’accordo intervenuto tra Francia e Germania su insistenza di quest’ultima: alla prima struttura se ne è sovrapposta un’altra, basata sull’imposizione di due vincoli ulteriori. Il primo è un vincolo sul debito: il piano di aggiustamento deve essere congegnato in modo tale che durante il periodo di aggiustamento il rapporto debito su Pil debba comunque ridursi di almeno un punto su Pil all’anno in media. Il vincolo quantitativo non era contemplato nella formulazione originaria della Commissione, che prevedeva la riduzione del rapporto debito su Pil solo alla fine, e non necessariamente nel corso del percorso di aggiustamento. Va aggiunto che la regola quantitativa vale nella stessa misura per tutti i Paesi con un rapporto debito su Pil maggiore del 90%, così contraddicendo una delle idee centrali della proposta della Commissione: la differenziazione del percorso di aggiustamento dei diversi Paesi sulla base delle loro caratteristiche specifiche. Nella proposta della Commissione era visibile un occhio di riguardo di Paolo Gentiloni per l’Italia. Ma il governo non è riuscito ad approfittarne.
Nelle stesse ore in cui Giancarlo Giorgetti difendeva l’intesa come una sorta di male minore, la maggioranza alla Camera – con l’aiuto del M5S – bocciava la ratifica del Mes. Solo tra i Paesi dell’Eurozona il nostro si è esibito in un atto gratuito, ostile nei confronti della Ue e di ben 19 Paesi che avevano già aderito al trattato di modifica di quello già in vigore. Perché mai, compiere un gesto insensato agitando motivazioni inconsistenti come quelle sostenute da Matteo Salvini? Giorgetti, messo in croce come Cristo tra due ladroni, ha già pronosticato che “ce la faranno pagare”. Mettiamoci nei panni di un boss di un grande fondo di investimento internazionale, che si interroga sulle motivazioni di un’adesione dell’Italia ad un Patto di stabilità che impone un taglio di almeno 13 miliardi l’anno e che nello stesso tempo manda in malora un meccanismo di solidarietà tra gli Stati, i cui partner ritengono utile e che sarebbe potuto servire anche all’Italia lungo la via crucis della riduzione del debito.
La conclusione di questi ragionamenti è semplice. Il boss si convincerebbe che l’adesione del governo italiano al percorso del nuovo Patto di stabilità è strumentale, perché Giorgetti ha ottenuto quel poco di flessibilità, consentita dal trattato fino al termine dell’attuale legislatura. Poi saranno problemi del nuovo Parlamento e del governo che entrerà in carica. Ma – di grazia – la riforma del premierato in compagnia di una legge maggioritaria prevista addirittura nella Costituzione non è rivolta al proseguimento dell’era Meloni almeno per altri vent’anni? Certo. Ma come dice Rossella O’ Hara: “Domani è un altro giorno”.