Sul sito dell’Atlantic Council, Zeneli riflette sulla perdita di reputazione di Pechino dopo la decisione di Roma di abbandonare la Bri. È un problema di status, spiegava Sciorati (Lse), ma è il momento del de-risking e ci sono nuove realtà geopolitiche da affrontare, spiega Sacks dal Council on Foreign Relations
“Quo vadis Bri?”, si chiede riflettendo riguardo alla Belt and Road Initiative cinese, e alla decisione italiana di uscirne, Valbona Zeneli. Zeneli riflette dal New Atlanticist, blog collettivo sul sito dell’Atlantic Council da cui passa il pensiero sulle dinamiche, appunto, del nuovo atlantismo. “Il coraggio [di Giorgia Meloni] di agire mettendo in discussione la correttezza di un accordo con il Partito Comunista Cinese, i cui valori fondamentali sono in diretto contrasto con l’Ue e con la Comunità transatlantica, potrebbe alla fine rivelarsi il precedente da seguire per altri leader”, scrive l’analista in forza allo Europe Center del think tank americano.
“La Bri deve essere intesa come uno strumento economico, di politica estera e di proiezione del potere del Partito Comunista Cinese (Ccp) ed è centrale per le ambizioni globali del leader cinese Xi Jinping”, continua spiegando come attualmente “lo stato cinese mira a rimodellare le norme e le istituzioni globali a piacere del Partito”. Poi aggiunge: “La Bri comprende 149 Paesi, di cui trentacinque in Europa ed Eurasia: la marea non cambierà immediatamente, [ma] l’uscita dell’Italia danneggerà la reputazione di una Bri già ridimensionata, con la Cina che affronta le proprie turbolenze economiche mentre i suoi partner affrontano la difficoltà del debito”.
La riflessione è analoga a quella che apriva l’ultima edizione di “Indo Pacific Salad”, la newsletter di Formiche.net sull’Indo Pacifico, dove Giulia Sciorati (Lise) faceva notare che il principale dei contraccolpi che subirà Pechino dopo la decisione italiana di non rinnovare il memorandum d’intesa che la includeva all’interno della Bri – ex unico Paese del G7 – riguarda lo status. “L’uscita dell’Italia dal MoU è sicuramente un grave problema di status per Pechino che, dal 2019, ha accompagnato parte del discorso sulla legittimazione della Bri attraverso la formula della presenza dell’Italia quale membro del G7. Sebbene questo intacchi soprattutto le relazioni bilaterali, è sicuramente un elemento da tenere in considerazione per comprendere quelle che potrebbero essere le risposte cinesi al mancato rinnovo”, spiegava Sciorati.
Anche per questo, “pensare a delle ritorsioni da parte cinese è legittimo ma getterebbe una pessima luce sulla Belt and Road Initiative”, aggiungeva Enrico Fardella(L’Orientale/ChinaMed). Ci sarà un approccio soft, probabilmente, anche per non marcare quel colpo allo status, alla reputazione di Pechino? D’altronde, la Cina resta un partner economico fondamentale per il nostro Paese e per l’Europa ma, assieme all’Ue, bisogna difendersi in settori strategici se si vuole raggiungere gli obiettivi ambiziosi sulla transizione energetica e su quella digitale, scriveva l’ambasciatore Giovanni Castellaneta.
Gli occhi internazionali su certe decisioni sono sempre molto interessanti, perché ne inquadrano la portata. L’Italia è un Paese importante nel mondo, e determinate scelte sono analizzate con attenzione. Come Zeneli, per esempio lo ha fatto David Sacks, fellow per Studi asiatici del Council on Foreign Relations. Il cambiamento nella posizione dell’Italia nei confronti della Cina è evidente nell’impegno della presidente del Consiglio sin dalle prime fasi della campagna elettorale, notava Sacks, mentre durante il loro recente incontro Meloni e il presidente degli Stati Uniti Joe Biden si sono impegnati a “rafforzare le consultazioni bilaterali e multilaterali sulle opportunità e le sfide poste dalla Repubblica popolare cinese” e hanno sottolineato “l’importanza vitale di mantenere la pace e la stabilità attraverso lo stretto di Taiwan” (quest’ultimo aspetto non banale per la retorica diplomatica di Roma).
Il ritiro dell’Italia dalla Belt and Road Initiative riflette però una tendenza più ampia: molti Paesi, e tra questi l’Italia, sono cauti sulla dipendenza economica dalla Cina a causa delle preoccupazioni sul debito e dei cambiamenti geopolitici, come l’invasione russa dell’Ucraina, su cui Pechino non è certamente disallineata da Mosca. “L’inversione dell’Italia sulla Bri dovrebbe quindi essere vista come guidata meno da considerazioni economiche e più dalla nuova realtà geopolitica che l’Europa deve affrontare”, scrive Sacks. Il de-risking è in atto e la scelta di Roma sembra uno dei punti chiave (e simbolici) in questo momento.