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Lavoro, non facciamoci illusioni per i dati dell’Istat

Negli ultimi anni sono cambiati quasi tutti i presupposti che influenzano le produzioni nel terziario e pubblico impiego, nell’industria e nel settore primario. La gelata demografica e le emigrazioni dei nostri giovani hanno ristretto il serbatoio da cui attingere le risorse umane. Così come il doppio salto costituito dalla rivoluzione digitale. Il commento di Raffaele Bonanni

Arrivano ancora dati buoni per l’occupazione da parte dell’Istat, nonostante l’inflazione risulta in fase di accentuata discesa, e della fase non proprio positiva della crescita economica. D’altronde si sa, le conseguenze delle malattie e delle guarigioni dei fattori che incidono sui dati occupazionali giungono dopo che si conclude un processo, e dunque può accadere che si possano registrare dati positivi mentre i dati economici negativi ne incubano altri di diverso segno che puntualmente valuteremo appena si genera la nuova onda.

Ad ottobre si ottengono 27 mila occupati in più rispetto al mese di settembre, e le persone in cerca di lavoro diventano più 45 mila che vanno a ridurre il numero di coloro che sinora non hanno voluto entrare nel mercato del lavoro. Questi numeri danno forza alla occupazione maggiore ottenuta in un anno pari a 458 mila da ottobre 2022 ed a un milione e mezzo di occupati in più dal gennaio del 2021.

In sintesi si recuperano tutti i posti di lavoro persi nell’annus horribilis del 2020, ed anzi ora se ne guadagnano più di mezzo milione che porta il lavoro dipendente a circa 24 milioni di unità. A tali fenomeni importanti se ne aggiunge un altro inaspettato: la crescita sensibile dei contratti a tempo indeterminato a scapito dei tempo determinati. Ed allora con queste accentuate tendenze del nostro mercato del lavoro siamo di fronte ad un annus mirabilis? Certamente non possono essere considerate scadenti conoscendo tutti gli accidenti capitati: rialzi dei tassi di interessi, pandemia, guerre e crisi energetica che si sono sommati ad altre ferite del tempo passato mai ricucite. Ma guai a leggere questi dati con le lenti del mercato del lavoro che abbiamo conosciuto sinora. Ed infatti negli ultimi anni sono cambiati quasi tutti i presupposti che influenzano le produzioni nel terziario e pubblico impiego, nell’industria e nel settore primario.

La gelata demografica e le emigrazioni dei nostri giovani hanno ristretto il serbatoio da cui attingere le risorse umane. Così come il doppio salto costituito dalla rivoluzione digitale che ha generato quella della intelligenza artificiale che ha reso ancora più evidente la inadeguatezza dell’istruzione e formazione nella incapacità di formare risorse umane altamente professionalizzate per attività produttive.

Ed allora è accaduto che la domanda ha agito con più decisione sull’offerta. Si è aumentata la disponibilità al tempo indeterminato, è aumentata la disponibilità a lavorare con la cessazione del reddito di cittadinanza e con il rincalzo della più lunga permanenza nelle aziende dei lavoratori anziani. È in questo contesto che si possono comprendere l’aumento occupazionale e la crescita dei tassi di attività di giovani e donne. Questi segni evidenti che oggi possono tranquillizzarci, possono però rapidamente trasformarsi in grandi preoccupazioni. Ed allora la politica e le parti sociali dovranno occuparsi con molta decisione ed innovazione della efficienza del mercato del lavoro. Essi devono entrare nella logica della rivoluzione necessaria nella istruzione e formazione per colmare la voragine della inesistenza di molte professionalità che viene vistosamente evidenziata dal mismatch tra domanda e offerta, degli aumenti salariali stabilizzando le riduzioni del cuneo fiscale e da aumenti in busta paga legati indissolubilmente alla produttività.

Si dice da tempo che adeguate professionalità producono più salario e rendono le nostre produzioni più competitive. Ma bisognerà occuparsene giacché è evidente, nessuno se ne sta occupando davvero.


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