Mentre all’Onu si vota per aumentare gli aiuti nella Striscia, senza condanna di Hamas e richieste di cessate il fuoco esplicite, si lavora per trovare una forma di negoziazione possibile da cui avviare un cessate il fuoco. Complessità nel sostegno (interno ed esterno) al governo Netanyahu e nelle scelte future di Hamas complicano la situazione. Tutto mentre aumenta il rischio per gli ostaggi e i civili
Dopo giorni di confronto diplomatico, minacce di veti incrociati e bracci di ferro, il Consiglio di Sicurezza dell’Onu ha dimostrato la sua capacità relativa di influire sui dossier più sensibili a livello politico-militare. Il voto favorevole alla risoluzione sulla situazione a Gaza non condanna apertamente Hamas, ma nemmeno chiede il cessate il fuoco a Israele. Il passo in avanti delle Nazioni Unite riguarda la richiesta di aumentare l’invio di aiuti umanitari nella Striscia – dove la popolazione locale vive in condizioni disperate, tra bombardamenti e carenza della gran parte dei beni di prima necessità. E poi, di nuovo, si sottolinea la necessità della liberazione degli ostaggi catturati durante il sanguinoso attentato del 7 ottobre.
Stati Uniti e Russia, per ragioni diverse (non menzione della condanna a Hamas, assenza di richiesta di cessate il fuoco), si sono astenute; gli altri 13 membri della massima assise onusiana hanno dato semaforo verde alla risoluzione presentata dagli Emirati Arabi Uniti. Il segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres, commenta che “il problema reale è che il modo in cui Israele sta conducendo questa offensiva sta creando enormi ostacoli alla distribuzione degli aiuti umanitari dentro Gaza”, per questo “l’unica via è il cessate il fuoco umanitario”. Più positiva la reazione dei singoli Paesi, compresi gli Usa e le istituzioni Ue, ma anche la Cina, che in generale vedono nella risoluzione un passo importante verso la fine dei combattimenti.
Complessità a Washington
La posizione americana non è banale: gli Stati Uniti hanno spesso bloccato le risoluzioni onusiane che in qualche modo criticano Israele, ma in questo caso – scegliendo l’astensione – l’hanno di fatto lasciata passare. Washington fatica a sopportare il peso mediatico della guerra a Gaza. La posizione dell’amministrazione Biden al fianco dell’alleato israeliano è indiscutibile, ma il governo Netanyahu (non amato alla Casa Bianca e sempre meno tollerato da varie parti di Capitol Hill) è chiamato dal minuto-zero dell’invasione a un passo strategico sul futuro della Striscia. Mentre si votava al Palazzo di Vetro si è per esempio diffusa la notizia della morte di Gadi Haggai, ostaggio con nazionalità statunitense: certe notizie sono impattanti sulle collettività americane, che chiedono da anni meno coinvolgimento nelle guerre in giro per il mondo.
Da unire, in un generale clima di logoramento del sostegno delle cittadinanze internazionali all’azione di Israele (che ormai ha prodotto oltre 20 mila morti) le informazioni diffuse dalla CNN a proposito dell’uso delle MK-84, bombe di produzione americana da oltre 900 chili che hanno un effetto fino a 350 metri dal punto di impatto. Israele, dai dati analizzati dal media americano, ne avrebbe usate circa duemila a Gaza, in un luogo ad alta densità abitativa, dove i danni collaterali sono impossibili da evitare. È un’ulteriore conferma di ciò che dice Guterres e di quello che le collettività – non solo americane – sottolineano. La reazione era giusta davanti al terrorismo di Hamas, ma la campagna spietata sulla Striscia è difficile da gestire.
Probabilmente non è un caso se giovedì il Pentagono ha pubblicato una guida ufficiale che fornisce cambiamenti radicali per ridurre i danni ai civili dalle operazioni militari statunitensi. È da un anno che il segretario alla Difesa Lloyd Austin ha ordinato la revisione: ora, in mezzo alla devastante campagna di distruzione che Israele sta portando avanti a Gaza, arrivano le nuove linee guida che rispondono a una serie di casi di alto profilo di operazioni militari statunitensi che hanno ucciso civili negli ultimi anni. C’è un messaggio di comunicazione politica, visto anche quanto la notizia ha circolato sui media americani.
Gli Stati Uniti non intendono avallare una cessazione immediata dei combattimenti che non sia una scelta di volontà israeliana, tant’è che nei giorni scorsi avevano bloccato una risoluzione che la Russia aveva proposto includendo un linguaggio esplicito a proposito. Tuttavia in privato le conversazioni americane con Gerusalemme da tempo cercano di portare la questione verso la pragmatica negoziale. Il governo israeliano ripete che vuole la totale “eliminazione di Hamas”, costi quel che costi, ma potrebbe essere un obiettivo quasi irraggiungibile, e ci sono segnali diversi. Per esempio, il consigliere per la Sicurezza nazionale israeliana, Tzachi Hanegbi, ha scritto due giorni fa — in un op-ed sul media saudita Elaph, anche questo non banale — che Israele immagina un’Autorità palestinese riformata che gestisca Gaza dopo la guerra.
Indizi negoziali?
È un punto di svolta? Israele potrebbe essere davanti alla consapevolezza che (narrazione di Benjamin Netanyahu e alleati più radicali a parte), sta diventando sempre più necessario negoziare un accordo per il ritorno degli ostaggi fosse anche ad alto prezzo. E questo richiede lo stop all’azione militare. Il rischio è non riaverli più (magari vittime di un bombardamento). D’altra parte, Hamas sa che non ha spazi negoziali di altro genere e non può più cedere ostaggi per pause temporanee – e una volta che li avrà finiti, allora la furia israeliana, ancora per quanto limitatamente frenata dalla presenza delle persone catturate, sarà totale.
Nei giorni scorsi, a Oslo, il primo ministro del Qatar e l’intelligence israeliana (con la presenza di osservatori anche americani ed egiziani), si sono incontrati per capire come trovare una quadra. Per Israele la proposta di Hamas è irricevibile: l’organizzazione politica/terroristica propone di rilasciare tutte le persone che ha ancora in ostaggio in cambio della liberazione di tutti i palestinesi arrestati negli anni dalle autorità israeliane. Da Israele si rilancia per una tregua momentanea e uno scambio limitato, per poi decidere successivamente il da farsi. Hamas, come detto, non vuole ripetere quanto accaduto a novembre, perché sa che prima o poi Israele potrebbe tornare all’attacco.
Un altro livello di complessità è quello interno. Il governo israeliano non ha solo la pressione dell’opinione pubblica internazionale su di sé, ma anche quella dei concittadini che temono un fallimento nel recupero dei rapiti. Dentro Hamas il dibattito invece riguarda il futuro: i leader in prima linea come Mohammed Deif e Yahia Sinwar vogliono “lotta dura senza paura”, ma i capi politici – che vivono protetti e sicuri all’estero – indicano una strada più moderata. Vorrebbero portare Hamas dentro l’ombrello dell’Olp – attualmente controllata dai nemici di Fatah – per poi far partecipare i propri rappresentanti all’Autorità nazionale palestinese. La stessa che secondo Hanegbi dovrebbe controllare la Striscia una volta riformata: significherebbe l’abbandono delle armi per Hamas, ma Israele potrà fidarsi?