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Perché Massimo Toschi ci mancherà. Il ricordo di Mayer

L’ex assessore della Regione Toscana alla cooperazione internazionale è scomparso pochi giorni fa a Lucca all’età di 79 anni. Un uomo che è riuscito a curare più di diecimila bambini palestinesi negli ospedali israeliani

Per ricordare la memoria Massimo Toschi, ex assessore della Regione Toscana alla cooperazione internazionale, scomparso pochi giorni fa a Lucca all’età di 79 anni, prendo spunto dalle parole dell’ambasciatore Pasquale Ferrara, direttore generale degli Affari politici della Farnesina: “Da assessore della Regione Toscana ‘alla cooperazione internazionale, alla riconciliazione e al perdono’ ha avviato numerosi progetti di cooperazione, tra cui ‘Saving Children’: più di diecimila bambini palestinesi curati negli ospedali israeliani. Oltre le barriere, oltre i muri. Grazie Massimo, sei stato un sorriso per l’umanità ferita”.

Tra il 2007 e il 2010 ho accompagnato spesso Massimo nelle sue numerose avventure internazionali e ho preso parte agli incontri con personalità politiche, imprenditoriali e religiose di notevole spessore. Mi limito a citare i primi nomi che mi vengono in mente: Shimon Peres, Franco Frattini, Riyad Al Malki, Ron Pundak, il cardinale Renato Martino, il generale Michel Aoun, Munib Al-Masri, Isaias Afewerki, i generali Claudio Graziano e Maurizio Fioravanti, Tin Myo Win, Aryeh Neier. Si tratta di persone che hanno ricoperto (e in taluni casi ricoprono ancora) ruoli di primo piano in Libano, Birmania, Eritrea, Israele e Palestina. Un rapporto di amicizia di lunga data e davvero speciale lo legava a Romano Prodi. Tra i suoi amici più cari c’erano Claudio MartiniManuela Dviri, Gino Strada, Alberto Melloni, Sergio Staino, Adriano Sofri, Gad Lerner, e Antonio Cassese.

Dal 7 ottobre a oggi ho ripensato spesso a due missioni “quasi impossibili” di cui è stato protagonista Toschi.

Il primo progetto è quello a cui ha accennato Ferrara su Facebook. Ideata nel 2003 da Dviri (con il supporto della Regione Toscana e della Unicoop presieduta da Turiddo Campaini) l’“alleanza medica” tra pediatri palestinesi e pediatri israeliani (pur tra mille difficoltà e qualche interruzione) è una grande esperienza ancora funzionante. Negli ultimi venti anni il programma “Saving Children” ha curato e salvato più di 13.000 bambini palestinesi della Cisgiordania e di Gaza affetti da gravissime patologie non curabili in loco. I bimbi, accompagnati dalle loro mamme, sono stati ricoverati in ospedali pediatrici israeliani e poi, una volta tornati a casa, sono stato seguiti dai loro medici in stretto collegamento con il personale sanitario degli ospedali israeliani. Con la riservatezza necessaria (dovuta ad elementari ragioni di sicurezza) migliaia di bambini che necessitavano di cure urgenti e complicate hanno superato barriere fisiche, politico-militari e psicologiche in apparenza invalicabili. Ricordo con emozione una cena a cui hanno partecipato un centinaio di pediatri palestinesi e israeliani durante la quale, come è d’uso tra colleghi, si sono scambiati le loro conoscenze mediche e le loro variegate esperienze professionali.

Tra le tante missioni impossibili in cui Toschi si buttava a capofitto con la sua straordinaria forza di volontà cito un’altra realizzazione emblematica: i campi estivi dedicati a 60 ragazzi di Gaza e a 60 di Sderot, la cittadina israeliana a poche centinaia metri dalla Striscia colpita quotidianamente da decine di razzi Qassam sin dal lontano 2001. Nel marzo del 2008, con il supporto determinante dell’ambasciatrice Elisabetta Belloni (all’epoca direttore generale per la Cooperazione allo sviluppo della Farnesina), ho accompagnato l’Assessore Toschi nella sua prima visita nella striscia di Gaza per visitare l’ospedale per bambini Al Dhurra, uno dei tanti nodi della rete pediatrica palestinese-israeliana a cui ho accennato. Prima della visita all’ospedale pediatrico tappa d’obbligo fu il grande Shifa Hospital di Gaza, già all’epoca snodo logistico cruciale delle autorità politiche e sanitarie di Hamas. I medici chiesero a Toschi di far entrare a Gaza un dispositivo radiologico per la diagnostica oncologica e con la sua proverbiale insistenza riuscì a convincere le autorità israeliane a farlo passare, anche se passarono diverse settimane prima della consegna. Qualche mese prima della nostra visita Hamas aveva conquistato con le armi il monopolio della forza a Gaza utilizzando metodi di particolare crudeltà nei confronti dei rivali di Al Fatah. E subito dopo ha cacciato dalla Striscia tutti gli esponenti palestinesi fedeli ad Abu Mazen. Ricordo benissimo questi fatti perché gli scontri armati fratricidi si svolsero tra il 12 e 14 giugno 2007.

Proprio in quei giorni, con il patrocinio della Regione e della Farnesina, era in corso a Montecatini il forum delle Ong israeliano-palestinesi coordinato da Malki (diventato poi ministro degli Esteri dell’Autorità nazionale palestinese) e dal compianto Pundak, direttore del Peres Center for Peace. Era stato uno dei negoziatori di Oslo e dai suoi diari è stato tratta la sceneggiatura del celebre film sugli accordi di pace. L’anno successivo Toschi è tornato a Gaza con il ministro degli Esteri, Frattini, e con il presidente della Regione, Martini, per un’altra importante iniziativa di emergenza umanitaria promossa congiuntamente da ministero degli Esteri e Regione Toscana.

Concludo con un racconto amaro, un ricordo a cui dal massacro del 7 ottobre scorso ho ripensato tantissime volte. Non ricordo il giorno esatto, ma nel corso del 2007 Toschi e io andammo a far visita all’avvocato Eli Moyal, attivissimo sindaco di Sderot tra il 1998 e il 2008, scomparso nel 2020 a 67 anni. Il suo era un ruolo difficilissimo perché tutti i giorni doveva fare i conti con una pioggia di razzi da Gaza che colpivano la cittadina. Era un fedelissimo di Ariel Sharon e aveva dato una mano a cacciare i gruppi di coloni israeliani recalcitranti (complessivamente erano circa 10.000) che non volevano abbandonare gli insediamenti nella Striscia di Gaza. Ci raccontò che l’aveva fatto per fedeltà al suo leader, ma era arrabbiatissimo e molto inquieto per quella scelta politica. Moyal riteneva che il ritiro unilaterale di Israele da Gaza deciso da Sharon fosse un errore strategico di portata storica, ma in quel momento nessuno gli dava retta: riteneva che abbandonare all’ala militare di Hamas la striscia di Gaza fosse un colossale boomerang strategico. Mentre i leader politici di Hamas se ne stavano ancora a Damasco (sotto protezione russa) il territorio di Gaza si sarebbe trasformato progressivamente in un vero e proprio arsenale di guerra al punto da diventare una potenziale minaccia “esistenziale” per lo Stato di Israele e un fattore di destabilizzazione per tutta la regione.

All’epoca del golpe del giugno 2007 molti si domandavano perché Hamas (era sulla cresta dell’onda) avesse deciso di lasciare la guida del governo dell’Autorità Nazionale Palestinese. Aveva vinto le elezioni legislative nel gennaio 2006 e non era facile capire perché aveva deciso di ritirarsi e arroccarsi con tanto di violenza fratricida nella roccaforte di Gaza. Con il senno del poi il disegno, appare sin troppo lucido. Dal 14 giugno del 2007 Hamas, giorno dopo giorno, ha potenziato in modo esponenziale la sua potenza militare trasformando la Striscia in un arsenale di guerra dotato di una grandissima quantità di armamenti nascosti nei tunnel, mimetizzati nel deserto oppure in località “sicure” nei pressi di scuole e strutture sanitarie. Non mi sarei immaginato che Moyal avesse previsto lo scenario di guerra che si sarebbe materializzato il 7 ottobre 2023, 15 anni dopo.

Mentre personalità molto influenti e diversi analisti pensavano che la riconciliazione tra le fazioni palestinesi fosse una necessaria precondizione per riprendere il filo della prospettiva di due popoli e due Stati, il vertice (almeno quello più ristretto) di Hamas aveva preso una strada completamente diversa. Durante gli ultimi 15 anni non si è preoccupato di creare uno Stato palestinese, ma insediatosi tra Gaza, Damasco e poi Doha ha preferito dotarsi di decine e decine di migliaia di razzi e missili, di droni iper-sofisticati di origine turca e/o iraniana, di mezzi marini, di corpi speciali ben addestrati e (forse) anche di apparati di guerra elettronica. In questo dramma è molto difficile prevedere come sarà il dopoguerra, a partire dalla politica internazionale?

Negli ultimi 15 anni il primo ministro Benjamin Netanyahu ha condotto una politica estera ondivaga, estremamente difficile da decifrare. Ha intrecciato stretti legami di amicizia e di collaborazione con il leader russo Vladimir Putin, con la Cina di Xi Jinping, con Donald Trump e il genero Jared Kushner, con l’Arabia Saudita e altri Paesi arabi moderati. Ma a cosa sono servite tutte queste relazioni se, nonostante la gravità del massacro compiuto, Hamas ha continuato a trovare solide sponde al Cremlino, a Pechino, a Damasco e in altre capitali arabe come se niente fosse successo? Forse queste scelte sono state compiute per non dare troppo spazio ai Fratelli Musulami vicini alla Turchia o ai Pasdaran, ancora assai influenti nel regime iraniano? Non sono in grado di rispondere, ma sono temi ineludibili per l’intelligence e i decisori.

Sotto il profilo geopolitico 7 milioni di ebrei israeliani (poco più delle vittime della Shoah) sono circondati da 400 milioni di cittadini musulmani. In questo contesto le basi militari russe a Sebastopoli, Latakia, Port Sudan, Bengasi, Massawa e ora in Niger non sono rassicuranti per il futuro di Israele. È altresì noto che gli Accordi di Abramo, sin dal loro esordio, hanno completamente scavalcato l’Autorità nazionale palestinese e ignorato la questione palestinese generando ulteriori frustrazioni nelle popolazioni e nei campi profughi. Per quanto attiene la politica interna è altrettanto noto che l’estrema destra fondamentalista negli ultimi 15 anni ha coltivato il proprio consenso tra i gruppi di coloni religiosi più estremisti degli insediamenti illegali nella West Bank. Clamoroso il caso di Bezalel Smotrich, leader del partito sionista religioso e ministro delle Finanze che nel 2015 ha dichiarato pubblicamente che l’Autorità nazionale palestinese è un fardello e Hamas è un asset. I media israeliani hanno colpevolmente trascurato cosa avveniva dietro le quinte nella striscia di Gaza forse perché hanno pensato che tanto bastasse Iron Dome, l’efficace sistema antimissile automatizzato tramite tecnologie di Intelligenza Artificiale capace di intercettare e distruggere i missili lanciati da Hamas.

Nessun sa ancora come e quando finirà la tragedia della guerra in corso, quel che è certo è che Moyal aveva ragione ad arrabbiarsi. Paradossalmente nessuno si aspettava che sarebbero stati i falchi a mettere seriamente a rischio la sicurezza nazionale di Israele.

Quanto prevede la tradizione religiosa ebraica nei confronti dei deceduti (nonché il rispetto delle famiglie delle vittime) ha impedito di mostrare all’opinione pubblica mondiale le terribili immagini del più vasto e grave massacro contro gli ebrei dalla Shoah ad oggi.

In questo contesto la tragica ondata di antisemitismo alimentata dalla “misure attive” intraprese dai gruppi iraniani e russi deve essere contrastata con efficacia, soprattutto tra i giovani, nei social media e all’università. Non c’è niente di male nel criticare le scelte politiche o militari israeliane (basta citare l’avvertimento del presidente statunitense Joe Biden), ma l’ignoranza sui fatti è intollerabile. In queste settimane ho scoperto che tanti ragazzi italiani non sanno neppure che per 15 anni ogni angolo più sperduto della Striscia di Gaza è stato rigidamente controllato dalla dittatura militare di Hamas. Purtroppo, di questi tempi la disinformazione domina la scena. A noi tocca il difficile compito di andare controcorrente combinando le grandi speranze suscitate dall’utopia e/o dalla fede con il pragmatismo dell’azione pratica come Toschi ha sempre cercato di fare con maggiore o minori successi nella sua vita terrena.

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