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La visione di nazione di Meloni e gli equilibri futuri del mondo. Le pagelle di Mauro

Meloni “si trova ad uno snodo cruciale, ma ha tutte le carte in regola per fare bene”. Il cuore delle vicende internazionali? “Gli equilibri disegnati a Yalta non ci sono più, perché nel 1989 è imploso il sistema sovietico e sono comparsi attori nuovi che nel ’45 semplicemente non c’erano”. E ora la sfida è nuovamente aperta. Conversazione con l’esponente popolare, già ministro della Difesa e vicepresidente del Parlamento europeo, Mario Mauro

“Noi siamo nati strappandoci un pezzo di storia patria, come il Pellicano che nel racconto biblico dà da mangiare ai suoi figli e per questo si squarcia il petto”, ricorda a Formiche.net l’ex ministro della difesa Mario Mauro, esponente popolare già vicepresidente del Parlamento europeo, sottolineando quali saranno nel 2024 le sfide maggiori per l’Italia. Esse coinvolgono la necessità per Roma di rimanere concentrata sullo scacchiere del Mediterraneo, guardando fino a tutta l’Africa sub equatoriale con l’intento di essere presente, ma con una distinzione: “Vedo che tutti fanno del Piano Mattei un problema di soldi, mentre invece è un problema di visione strategica. Quindi, sull’onda di quella visione strategica che ha avuto il tratto di un grande protagonista della storia nazionale, il governo Meloni deve rilanciare una visione di nazione”.

Diamo i voti al governo, partendo dalla riforma sul premierato: è stata impostata nella maniera corretta e i binari di progressione sono quelli giusti?

Non è una domanda semplice, ma risponderò con quello che penso. Il vizio delle modifiche costituzionali, a partire da molti decenni, non è tanto nella specificità di un progetto, ovvero il premierato, o qualche altra idea come come la cancellazione o la diversificazione delle attività di un ramo del Parlamento, come era nel modello di Renzi. Piuttosto il problema è che le costituzioni nascono per fare incontrare visioni politiche non coincidenti con lo scopo di avere regole del gioco condivise. Quindi, quando una riforma costituzionale nasce per iniziativa di un governo, automaticamente si autolimita perché è un’opzione di maggioranza, non è un’opzione condivisa.

Con quali rischi?

Ciò espone questa proposta di riforma ai meccanismi tipici delle attuali regole del gioco che consentono a chi non si sente coinvolto attraverso la via referendaria, più che ancora attraverso il voto parlamentare, di frenare quell’impeto riformatore.

Quindi?

Meglio sarebbe stato se un’ipotesi di modifica costituzionale fosse nata nel dialogo non solo con le opposizioni, ma soprattutto con quella parte viva del Paese che da troppo tempo è lontana dalle alchimie politiche italiane. Ciò potrebbe trasformarsi in una pietra di inciampo che onestamente l’attuale presidente del Consiglio non merita. Sarebbe stato molto più ragionevole se tutti i componenti della coalizione si fossero adoperati per avere un momento in cui prevalesse lo spirito costituente, croce delizia di tutti i processi di natura costituzionale. Lo dico perché voglio ricordare che un governo che nacque con questo intento, cioè il governo cosiddetto delle larghe intese, cominciò a lavorare dopo il lavoro preparatorio cosiddetto dei saggi, a una modifica costituzionale condivisa e, per assurdo, quel processo venne interrotto dal partito di maggioranza relativa in quel momento, cioè il Pd, che sostituendo Letta con Renzi pose fine a quella possibilità di incontro che sarebbe stato molto utile, perché avrebbe coinvolto in quel momento addirittura i Cinque Stelle.

Favorevole o contrario, dunque, alla riforma?

Non prendo posizione in questo momento sul contenuto della riforma, perché per discutere c’è sempre tempo. Prendo posizione sul metodo e il metodo in materia costituente è quasi più sostanza del contenuto stesso, perché alla fine bisogna per l’appunto arrivare a regole condivise attraverso un processo che è sempre, per definizione, un processo di riconciliazione nazionale. Per questa ragione non va perso lo spirito costituente, perché nel momento in cui qualcuno si sentisse escluso da questo percorso, inevitabilmente finirebbe col non riconoscere validità di quelle regole, anche se sono state prodotte da una maggioranza. Ma non è tutto.

Ovvero?

So benissimo che si possono formare le maggioranze in Parlamento, che si può arrivare a una maggioranza qualificata, anche se non mi sembra il caso di questo percorso. Però, nei processi costituzionali, va coinvolta l’intera nazione. Questo è il succo della mia riflessione.

Riguardo agli elementi di politica estera e geopolitica che toccano gli interessi nazionali vorrei un suo commento su tre elementi importantissimi. Innanzitutto il Mediterraneo e quindi il Piano Mattei con un riferimento anche a Gaza; la riunificazione dei Balcani, come l’ha definita Giorgia Meloni; l’evoluzione della crisi in Ucraina.

Rispondo volentieri a queste domande con una premessa per me doverosa. Tutti inseguiamo una sorta di partizione dei conflitti, ma il conflitto è uno solo: il cuore della vicenda, la sfida geopolitica, è quella riassunta dalle parole di Sergei Lavrov che qualche giorno fa ha detto che dopo 500 anni l’Occidente è destinato a perdere il suo potere e ad essere sconfitto.

Perché dice questo?

Perché, stando alla storia, gli accordi sono frutto della logica dei rapporti di forza e l’ultima volta che c’è stato un grande accordo di potere è stato Yalta, quando le potenze vincitrici della seconda guerra mondiale si sono spartite il mondo. Dopo, ovviamente, il mondo è cambiato. E oggi quello che è sotto gli occhi di tutti e che gli equilibri disegnati a Yalta non ci sono più, non ci sono più perché nel 1989 è imploso il sistema sovietico, quindi quello che con gli Stati Uniti era il principale contraente di quell’accordo si è involuto e per la stessa ragione sono comparsi attori nuovi che nel ’45 semplicemente non c’erano.

Si riferisce ai nuovi player asiatici?

Non c’era l’India, che era ancora un protettorato britannico, anzi una colonia. Non c’era la Cina che era in quel tempo impegnata nella guerra civile. Con queste premesse è chiaro che non possiamo dire che dietro la vicenda di Gaza del 7 ottobre del conflitto israelo-palestinese ci sia la Russia o ci sia la Cina, ma sicuramente Russia e Cina usano anche il conflitto di Gaza, come le tensioni in Africa o come le crisi di sovranità nel Pacifico meridionale, per fare qualcosa.

Cosa?

Per rivendicare un proprio ruolo, dove la Russia vuole una Yalta per ribadire la propria centralità nel sistema globale e immaginarsi come antitetico agli Stati Uniti. La Cina e l’India vogliono una realtà nuova, cioè un luogo che riconosca le proprie qualità e le proprie specificità. Dentro questa vicenda, il paradosso è che l’Europa a Yalta non c’era perché a Yalta c’erano solo Francia e Inghilterra, testimoni e rappresentanti delle propaggini ultime della storia coloniale e quindi di un ruolo imperialistico dell’Occidente.

Come Europa e Italia oggi guardano alle nuove sfide?

L’Europa, intesa come progetto dell’Unione europea, è caso unico al mondo di progetto che non è un accordo tra vincitori, ma un accordo tra vincitori e vinti. L’Europa dovrebbe capire oggi l’urgenza di rilanciare il proprio ruolo ambendo a diversi equilibri in cui, forte del proprio rapporto transatlantico, ricavare uno spazio specifico di intervento per il segmento che va dall’area sud del Mediterraneo fino ai Balcani e all’Europa orientale, fronteggiando negli equilibri il gigante russo: questo è il conflitto. Dentro il conflitto ci sono i conflitti e quindi è nostro dovere tenere d’occhio i diversi fronti, una specifica responsabilità non solo dell’Europa ma anche dell’Italia è quella adoperarsi nei fronti dove più importante è ribadire il proprio ruolo.

Quali le prospettive per l’Italia?

Da questo punto di vista l’Italia deve rimanere concentrata sullo scacchiere del Mediterraneo, guardando fino a tutta l’Africa sub equatoriale con l’intento di essere presente. Attenzione, perché vedo che tutti fanno del Piano Mattei un problema di soldi, mentre invece è un problema di visione strategica. Quindi, sull’onda di quella visione strategica che ha avuto il tratto di un grande protagonista della storia nazionale, il governo Meloni in questo caso deve rilanciare una visione di nazione e questo è anche l’oggetto dello spunto critico di Galli Della Loggia sul Corriere della Sera.

Cosa vuol dire rilanciare il ruolo della nazione in chiave internazionale?

In primis avere una visione della nazione. Non dobbiamo dimenticare che l’Italia è un Paese che ha comprato la propria libertà e la propria indipendenza cedendo territorio nazionale e addirittura uno dei primi senatori della Repubblica, Giuseppe Garibaldi, ha avuto l’onta di sedere su quello scranno dopo aver dato l’assenso o aver comunque subìto la cessione della propria patria natia, cioè di Nizza. Noi siamo nati strappandoci un pezzo di storia patria, come il Pellicano che nel racconto biblico dà da mangiare ai suoi figli e per questo si squarcia il petto. Questa consapevolezza ci deve rendere maturi nella circostanza presente, perché noi abbiamo attraversato un tempo della storia in cui la visione della nazione o ha cercato di far coincidere l’identità nazionale con il racconto risorgimentale, o ha tentato di ancorarsi al mito della Roma imperiale. O nel tempo più recente ha puntato tutto attraverso lo sguardo lungimirante di De Gasperi sulla patria europea.

A che punto è del guado Giorgia Meloni?

Si trova ad uno snodo cruciale, ma ha tutte le carte in regola per fare bene perché non solo rappresenta la destra italiana, ma rappresenta un sentire nuovo della destra italiana che le consentano di mettere a disposizione dell’opinione pubblica una diversa visione di nazione: dal mio punto di vista Giorgia Meloni ha tutti i requisiti per poterlo fare. Mi preme suggerire in questa circostanza che il traino vero delle vicende europee e globali l’Italia lo potrà fare se diventa consapevole di alcuni elementi caratteristici, come la propria storia e la propria identità perché l’Italia quello che ha da offrire al mondo è soprattutto la bellezza.

In quali termini?

Una bellezza disarmante che può rappresentare per contagio, quasi per invidia, quell’elemento che attira verso il nostro Paese il meglio delle generazioni del mondo. Quindi noi dobbiamo fare piani e progetti che sorreggono questa visione di nazione, attraverso un grande sforzo di tutela e di promozione della nostra cultura, della nostra lingua e delle nostre relazioni internazionali e in qualche modo del contenuto del nostro operare. Come la tutela della nostra manifattura e della nostra capacità di entrare in rapporto con altri popoli e con altre nazioni, proponendo a tutti un bene comune. Questo mi sembrerebbe coerente con gli intendimenti originari dell’azione politica di Meloni che ha sempre detto di voler rilanciare il ruolo dell’Italia e mi sembra altresì un terreno di incontro possibile nella declinazione del progetto europeo che, in questo modo, prenderebbe le distanze da quell’Unione delle Repubbliche socialiste europee che è apparsa a Bruxelles negli anni ultimi della propaganda omologatrice di molte compagini politiche, per addivenire invece a quella Europa dei popoli delle nazioni che ha rappresentato il sogno dei padri fondatori. Questo mi sembrerebbe l’elemento che dà coerenza con una interpretazione visionaria del ruolo di questo governo.

Una linea immaginaria, tracciata non solo da Bruxelles, ma anche da Roma, che va da Gibilterra alla Crimea?

Anche per complicità mediatica, in questo anno ci hanno raccontato che il conflitto in Ucraina fosse tutto quello che nel mondo accadeva, poi sostituendolo dopo il 7 ottobre con un racconto del conflitto israelo-palestinese altrettanto costante e drammatico, ma come se fossero sganciati. E invece non sono sganciati.

In che senso?

Oggi viviamo una condizione sul piano globale in cui qualunque cosa accada, a qualsivoglia latitudine, diventa determinante per il destino di tutti e quindi dobbiamo stare concentrati per cercare di capire i nessi e, sulla base di questi nessi, rilanciare un’azione profonda. Questo ancor più di tutti lo devono fare le diplomazie e quindi in questo momento quando io parlo di visione europea e di una visione italiana dell’Europa, parlo di ciò che è mancato nelle circostanze più recenti: una capacità soprattutto della nostra diplomazia di fare rete, cioè di fare alleanze nel contesto europeo perché noi dobbiamo essere realisti. L’Europa, quasi fin da subito, ha preso la forma della riconciliazione franco-tedesca e quindi si è strutturata per rispondere innanzitutto a quel problema. Il protagonismo dell’Italia dentro il contesto europeo non può essere velleitario, ma deve articolarsi attraverso una trama fitta di alleanze che, partendo dalla prossimità ai problemi dei Balcani, passando per i legami storici con gli attori più significativi, anche quelli recenti, penso alla Polonia di Tusk, consenta al nostro Paese di recuperare una centralità nelle negoziazioni europee perché le istituzioni europee, per loro natura, sono negoziali.

Con quale punto di caduta?

Noi non ci dobbiamo meravigliare di discutere, di alzare la voce o magari di sussurrare nel contesto europeo, ma dobbiamo avere come specifico orizzonte quello di creare legami, perché attraverso questi legami ci saranno momenti di una storia condivisa in cui non potranno dirci di no.

@FDepalo

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