Gianfranco Polillo ricostruisce le tappe del Mes fino ad oggi. Date significative che ne segnarono il destino. Perché rappresentarono la coda del fallimento della Lehman Brothers con le sue drammatiche conseguenze sulla vita dei principali Paesi del globo: dalla Russia di Putin, alle cosiddette “primavere arabe”. E poi l’Europa…
Sembrerebbe sia rimasto solo Marco Travaglio a pontificare sulla necessità di non procedere alla ratifica del nuovo Mes (Meccanismo europeo di stabilità). Tutti gli altri, seppur con mal di pancia di varia natura, alla fine, hanno dovuto convenire. Comprensibile. Quel percorso di accettazione è stato lungo e doloroso. Colpa delle modalità con cui gli organismi preposti (Commissione europea, Fmi e Bce) avevano gestito la crisi greca. Riconoscendo solo tardivamente e con lacrime da coccodrillo, che forse la “cura” era stata devastante. Non aveva ucciso il malato, ma lo aveva costretto ad una lunga degenza dalla quale – si veda il rapporto debito/Pil – ancora non si è ripreso. Quindi, in conclusione, dubbi ed incertezze più che motivati. Che il trascorrere del tempo ha, tuttavia, progressivamente stemperato. Ricordare le tappe fondamentali di un processo durato oltre un decennio può quindi risultare utile per comprendere, oggi e non ieri, la reale natura del problema.
Il varo del “Fondo finanziario europeo per la stabilità finanziaria della zona dell’euro”, fu deciso dall’Ecofin del 9-10 maggio 2010 e poi, a livello di Consiglio europeo, il 25 marzo 2011. In Italia la decisione fu ratificata dal Consiglio dei ministri del Governo Berlusconi del 3/8/2011. Fu approvata dal Parlamento italiano il 19/7/2012 con 325 sì, 53 no e 36 astenuti. In precedenza, il sostegno finanziario ai Paesi in crisi era stato garantito dal Fesf (Fondo europeo di stabilità finanziaria) e dal Efsm (Meccanismo europeo di stabilizzazione finanziaria). Grecia, Irlanda, Spagna, Portogallo e Cipro, ne erano stati i principali beneficiari.
Le date che segnarono il destino del Mes sono significative. Rappresentarono la coda del fallimento della Lehman Brothers, la grande banca a stelle e strisce, con le sue drammatiche conseguenze sulla vita dei principali Paesi del globo: dalla Russia di Putin, alle cosiddette “primavere arabe”. In Europa l’epicentro della crisi era stata la Grecia. Dove aveva preso corpo il rischio di un contagio generalizzato, destinato a colpire innanzitutto l’Italia. Per poi diffondersi, se non adeguatamente contrastato, come una pandemia, fino a mettere in discussione la stessa esistenza dell’euro.
L’Italia, com’è noto, a differenza degli altri Paesi precedentemente ricordati, non aveva fatto ricorso alle cure del Mes. A stabilizzare la situazione finanziaria, ci aveva pensato direttamente il governo, guidato da Mario Monti, con una stretta finanziaria, che aveva pochi precedenti. Nel frattempo la Bce, guidata da Mario Draghi, aveva portato avanti una strategia d’intervento che, di fatto, aveva reso superfluo l’eventuale intervento del Mes. Il finanziamento in Europa era stato garantito con strumenti diversi che andavano dalla progressiva riduzione dei tassi di interesse, ai finanziamenti diretti alle banche per più di 1000 miliardi (operazioni di Ltro e Tltro); dai tassi negativi sui depositi presso la Bce da parte degli istituti di credito, all’acquisto, sul mercato secondario, dei titoli di stato (Omt) e dei bond societari (Cspp). Il tutto condito dal celebre impegno del “whatever it takes”.
Il vantaggio di queste misure, rispetto al Mes, era rappresentato dall’utilizzo diretto delle regole di mercato. Senza alcun bisogno di ricorrere a misure di carattere burocratico, quale le possibili procedure istruttorie che facevano capo al Fondo europeo. Con la motivazione di dover rispondere ad una situazione di crisi che aveva colpito tutte le economie avanzate: dal Giappone e gli Stati Uniti alla Ue. Il cui relativo tasso di crescita aveva subito un forte rallentamento con una perdita media annua, rispetto al periodo 2001 – 2088, che andava dal 19 per cento (Usa) al 47 per cento dell’Unione Europea.
L’utilizzo del Mes non avrebbe pertanto comportato vantaggio alcuno. Tant’è che nessun Paese ne aveva chiesto l’intervento: nemmeno a sostegno della crisi pandemica, alimentata dal Covid, sebbene vi fossero risorse stanziate per 240 miliardi di euro. Accantonate a seguito della carenza di domanda di finanziamenti alternativi e che potevano essere ottenute ad un tasso dello 0,1 per cento all’anno, con ipotesi di rimborso fortemente dilazionate (10 anni) nel tempo. Unica condizione prevista: il loro esclusivo utilizzo per finanziare i costi diretti ed indiretti legati all’assistenza sanitaria.
Tentare di riformarne il Trattato istitutivo, cosa ch’era avvenuta nel 2021, era stata soprattutto conseguenza di questa lunga inattività e del congelamento dei miliardi di euro versati dagli Stati membri dell’Eurozona, secondo un rigido criterio di proporzionalità. Nel 2019, per esempio, a fronte di una capacità di finanziamento pari a 500 miliardi di euro, l’erogato era stato pari ad appena 89,1 miliardi, con una percentuale del 17,8 per cento. Un secondo motivo, destinato ad agire nella stessa direzione, era stato il diverso contesto macroeconomico in cui i singoli Stati erano ora chiamati ad operare. Si stava passando, infatti dal quantitative easing, (il bazooka di Mario Draghi) al quantitative tightening. Dall’eccesso di liquidità monetaria del precedente decennio, alla stretta finanziaria.
Un cambiamento di clima che avrebbe di nuovo fatto emergere le differenze economiche e finanziarie tra i singoli Paesi dell’Eurozona. Al punto da condizionare la stessa politica monetaria della Bce: non più libera di poter decidere, ma costretta a predisporre un nuovo strumento d’intervento (Tpi –Transmission protection instrument), per proteggere, con l’acquisto discrezionale dei titoli del debito pubblico, i Paesi più fragili. Dallo scorso maggio i titoli posseduti da Banca d’Italia, per conto di Bce, in continua crescita nei mesi precedenti, si sono ridotti, nel mese di settembre, di 16 miliardi di euro. Sebbene il mancato reinvestimento dei titoli in scadenza, in pancia alla stessa Bce, fosse stato ben più consistente.
Ragionare sul MES significa, pertanto, non poter prescindere dai cambiamenti di questa portata. Al momento esso non è altro che una sorta di polizza d’assicurazione. Una copertura al quale l’automobilista può ricorrere in caso d’incidente. La sua scelta dipenderà, eventualmente, dall’entità del danno. E dalle possibili alternative. Il Paese in difficoltà, potrà contare solo sulle proprie forze, come avvenuto, in Italia, nel 2012. Potrà ricorrere ai prestiti di mercato, senza attivare le procedure burocratiche del Mes. O chiedere l’intervento di quest’ultimo, nell’eventualità ch’esso risulti più conveniente. Altre ipotesi non sono possibili. Nei momenti di crisi, non possono esistere pasti gratis.
Lo dimostra lo stesso quantitative easing della gestione di Mario Draghi. Non stiamo, forse, pagando per quelle scelte con un tasso d’inflazione, che non si vedeva da molti anni? Certo le cause relative non sono riconducibili solo a quella fase. Basti pensare all’invasione da parte di Putin dell’Ucraina e le conseguenze che ne sono derivate. Ma ciò non toglie che un nesso causa – effetto vi sia stato. Ed allora non servono guerre di religione per decidere il da farsi. Esiste semmai un ragionamento tattico, che riguarda la complessa partita che si sta giocando a Bruxelles. E che non è relativa solo al Patto di stabilità.
Nel lontano giugno del 2012, sempre nel solco dell’attenta regia di Mario Draghi, il Consiglio europeo aveva gettato le basi dell’Unione bancaria. I suoi pilastri erano quelli del Meccanismo di vigilanza unica, costituito dalla Bce e dalle autorità nazionali di vigilanza. Quindi il Meccanismo unico di risoluzione, per gestire le eventuali crisi bancarie. E, infine, l’estensione dell’assicurazione dei depositi a livello europeo. Condizioni ch’erano state richiamate nella risoluzione (primo firmatario Delrio) con cui la Camera dei deputati aveva autorizzato la firma del Trattato, oggi oggetto di ratifica parlamentare. Il primo pilastro (Ssm) è già operante. Il secondo (Srm) lo diverrà con la firma del nuovo Trattato sul Mes. Del terzo (Edis), che più interessa i cittadini europei, non c’è invece traccia. Ed allora invece di stracciarsi le vesti, nel denunciare le inadempienze italiane, non sarebbe più giusto e corretto battersi affinché sia rispettata, fino in fondo, l’eredità di Mario Draghi e la vecchia volontà del Parlamento italiano?