Se continuiamo a rinunciare, come italiani, alla partecipazione alla vita pubblica, stiamo rinunciando alla nostra democrazia. Forse la conoscenza non necessariamente rende liberi. Di certo l’ignoranza rende schiavi. La riflessione di Stefano Monti
Siamo soliti attribuire al concetto di anti-democrazia immagini di stampo novecentesco. Antidemocratico è per noi ciò che apertamente viola la dimensione della democrazia. Sono antidemocratici i dittatori, i regimi estremisti. Sono antidemocratiche le ortodossie religiose, i modelli organizzativi che prevedono il culto dell’apice, l’egemonia del singolo.
Eppure, l’antidemocrazia novecentesca, nella parte di mondo che abitiamo, è soltanto l’ombra di un pericolo. Esiste, ma non è concreta come le forme di antidemocrazia che invece governano la nostra vita quotidiana. Ci sono ampie regioni del globo in cui questo concetto è ancora vivido ed in forme molto separate: l’area del medio oriente presenta spesso antidemocrazie tradizionali, mentre la Cina ultra-capitalista ha declinato questi principi in una dimensione più tecnologica con le regole di controllo sociale e con i meccanismi tipici innescati dalle differenze di reddito disponibile.
In Europa, invece, e su questo l’Italia detiene una posizione di rilievo, l’antidemocrazia ha assunto una dimensione più sofisticata, che ne rende meno evidente la presenza e, per questo, ne rende più difficile il superamento.
È una declinazione letterale, se vogliamo, con ciò intendendo che per intercettare la nuova forma di antidemocrazia del nostro tempo è necessario muovere la riflessione dal concetto stesso di democrazia e antidemocrazia.
Il vocabolario Treccani attribuisce alla parola antidemocrazia questo significato: “Contrario alla democrazia o ai suoi principî sociali e politici”. È un passaggio affatto banale, perché definisce come antidemocratico tutto ciò che sia “contrario” alla democrazia, dove per contrario va inteso (sempre da Treccani), tutto ciò che sia opposto o contrastante. Quindi, antidemocratico è, in soldoni, ciò che contrasta la democrazia.
Democrazia, d’altro lato, viene indicata come una “forma di governo che si basa sulla sovranità popolare esercitata per mezzo di rappresentanze elettive, e che garantisce a ogni cittadino la partecipazione, su base di uguaglianza, all’esercizio del potere pubblico”.
La parentesi scolastica si può dunque semplificare in un concetto molto semplice: è antidemocratico tutto ciò che contrasta, opponendosi o creando impedimenti, l’esercizio della sovranità popolare, e la partecipazione all’esercizio del potere pubblico da parte della cittadinanza.
Avendo dunque ben chiari questi concetti, diviene molto più semplice distinguere l’antidemocrazia che per semplicità abbiamo definito novecentesca, da quella che invece si è sempre più affermata negli ultimi anni, riassumendo il tutto così: l’antidemocrazia novecentesca contrasta la sovranità popolare; l’antidemocrazia che viviamo oggi contrasta la partecipazione all’esercizio del potere pubblico.
Dovrebbe dunque risultare evidente, da queste premesse, che la forma più sofisticata di antidemocrazia che oggi il nostro Paese vive è la progressiva distanza tra cittadini e gestione della cosa pubblica.
È una forma molto sofisticata, perché tale distanza non è affatto imposta, bensì indotta. A differenza di quanto è accaduto nella storia, non vi è alcun tentativo esplicito e formale da parte di chi detiene il potere di allontanare le persone dall’esercizio del controllo o del potere. Anzi. Sono gli stessi cittadini che “si allontanano”, “si disinteressano”, “si disaffezionano” a ciò che è la gestione del potere, mentre la narrazione da parte dei partiti politici è invece opposta, ponendosi come obiettivo principale il recupero della collaborazione tra potere e cittadinanza.
Gli italiani votano sempre meno. Si interessano sempre meno della politica. Attribuiscono, in qualche modo va detto, un valore tendenzialmente negativo a tutti coloro che governano e percepiscono la propria partecipazione irrilevante. E troppo “costosa”, in termini di impegno, di tempo e di sforzo conoscitivo, rispetto al beneficio che potrebbero percepire esercitando in modo più consapevole il proprio ruolo democratico.
Prima di attribuire a queste riflessioni un valore meramente concettuale, si provi a rispondere a questa domanda: c’è differenza tra un potere eletto da pochi perché pochi possono andare a votare, e un potere eletto da pochi perché in molti decidono di non votare?
Questo progressivo allontanamento ha delle influenze dirette sulla gestione della cosa pubblica, e queste influenze si possono riscontrare nella vita quotidiana del nostro Paese. Non che chi governa non possa e, in alcuni casi, non debba, assumere decisioni impopolari. Ma non serve entrare nel dettaglio di cronaca politica per avere la piena consapevolezza che molte scelte sarebbero state nel tempo differenti se tutti gli italiani avessero partecipato in modo attivo alla vita democratica.
Una condizione che innesca un meccanismo paradossale, perché proprio coloro che dovrebbero tutelare i propri interessi se ne disinteressano.
Ed è un meccanismo che richiede una nuova forma di “tutela della democrazia”, fondata su una dimensione proattiva e culturale. Non una forma di attivismo costruita intorno ad un ipotetico “nemico”, ma una forma di attivismo volta a raggiungere un “risultato condiviso”.
Un attivismo che spieghi ai cittadini il funzionamento della nostra democrazia, che spieghi, a vari livelli di governo, le molteplici decisioni che vengono assunte. Un attivismo che sia laico nei confronti della stessa politica, perché il centro dell’interesse non è più quello di favorire l’affermazione di una corrente piuttosto che un’altra, quanto piuttosto quello di favorire una migliore democrazia.
È chiaro che una tale azione non possa essere demandata ai partiti, che per propria natura è giusto confliggano gli uni contro gli altri. Né tantomeno alle “scuole”, perché il nostro sistema scolastico è afflitto da problematiche importantissime, né possono gli attori istituzionali (Musei, Archivi, Biblioteche), perché ciò causerebbe una sovrapposizione di ruoli. Un’azione di questo tipo va dunque ricercata in quelle forme di associazionismo, di “movimenti spontanei”, volti a favorire una sempre maggiore partecipazione alla vita pubblica, e una sempre maggiore comprensione delle dinamiche che tale vita pubblica regolano.
Organismi di questo tipo andrebbero tuttavia finanziati, in modo autonomo, perché il flusso di finanziamenti potrebbe determinare un’attività di lobby importante. E andrebbero quindi sviluppati secondo una logica che non fondi interamente sul finanziamento pubblico, e che nemmeno conti esclusivamente sulla partecipazione diretta dei cittadini, o sulle erogazioni liberali da parte dei privati. Un meccanismo di attività ibrida, tale da diversificare la natura delle entrate, e tale da garantire in ogni caso la sopravvivenza di tali soggetti nel tempo.
Non di certo una cosa semplice, è vero, ma è anche vero che se continuiamo a rinunciare, come italiani, alla partecipazione alla vita pubblica, stiamo rinunciando alla nostra democrazia.
Forse la conoscenza non necessariamente rende liberi. Di certo l’ignoranza rende schiavi.