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Opec, l’Angola si chiama fuori. Ecco cosa è successo

La seconda potenza petrolifera africana non ha digerito la spinta saudita a tagliare la produzione. L’impatto è minore in termini di barili di petrolio (specie considerando l’ingresso del Brasile) ma d’effetto in termini di narrative di Paesi “non allineati” in stile Brics. Spazio in più per l’alternativa occidentale?

L’Angola, il secondo maggior produttore di petrolio del continente africano, ha annunciato giovedì la sua intenzione di lasciare l’Opec perché l’adesione al gruppo non coincide più con i suoi interessi. “Il nostro ruolo nell’organizzazione non è stato ritenuto rilevante”, ha chiosato il ministro delle Risorse Diamantino Azevedo dopo una riunione di gabinetto, stando a Bloomberg. Luanda si aspettava risultati in linea con i suoi interessi, ma “quando ciò non avviene, diventiamo ridondanti e non ha più senso rimanere nell’organizzazione […] Non è stata una decisione presa alla leggera, ma è arrivato il momento”.

Lo sviluppo fa seguito a mesi di frizione in cui le differenze tra i membri del cartello di produttori e la sua componente più forte – l’Arabia Saudita, fiancheggiata dalla Russia nel formato Opec+ – sono venute prepotentemente a galla. Gli analisti sono concordi nel dire che tutto è iniziato a giugno, quando i membri dell’Opec hanno rivisto i numeri delle rispettive produzione di base (il livello a partire dal quale viene calcolata la quota di produzione di ciascun membro).

L’Angola non ha mai digerito il risultato di quella riunione, un accordo che ha ridotto la sua quota – nonostante la produzione nazionale sia crollata del 40% negli ultimi otto anni, stando a Bloomberg – e innalzato quella di altri Paesi come gli Emirati Arabi Uniti. I rappresentanti angolani avevano abbandonato quella riunione, per poi accettare (insieme a Nigeria e Repubblica del Congo) una revisione indipendente della produzione di base.

La conseguenza è che quelle revisioni si sono tradotte in un abbassamento delle soglie di riferimento dei tre Paesi. La cosa è stata decisa alla riunione di novembre dell’Opec, slittata di una settimana a causa delle loro proteste. I membri del cartello hanno poi acconsentito a un ulteriore taglio della produzione e persino dato il benvenuto al Brasile, proprio nei giorni in cui prendeva il via la Cop28 – evento nel quale l’Opec in generale e l’Arabia Saudita in particolare hanno dimostrato tutto il loro peso.

Naturale, dunque, che l’uscita dell’Angola dall’Opec sia uno smacco per il cartello. Non tanto per la sua capacità di muovere il mercato del petrolio (Luanda fornisce poco più di un milione dei 28 milioni di barili di petrolio al giorno che l’Opec complessivamente riversa nei mercati globali) quanto per la sua immagine di unità. E, lateralmente, anche la credibilità dei consessi di Paesi “non allineati” come i Brics, che pur differendo per scopo e costituzione dall’Opec ne condivide alcuni tratti – come la volontà di costruire un’alternativa all’“l’egemonia imperialista-economica occidentale”.

Nell’ottica della contesa tra i Paesi a trazione occidentale che scommettono sulla fine degli idrocarburi e i Paesi che da questi ultimi dipendono in maniera esistenziale (Arabia Saudita e Russia in primis), l’uscita dell’Angola è una piccola ma importante crepa narrativa. Una che i membri del primo gruppo possono sfruttare per proporre modelli di crescita alternativi – uno dei motivi dietro ai progetti come il Piano Mattei italiano, il Global Gateway europeo e il Build Back Better statunitense.

Immagine: Verangola


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