Il ministro Giorgetti in audizione alle commissioni parlamentari ha fatto balenare l’idea di un possibile voto contrario dell’Italia alle proposte di riforma del Patto di stabilità. Eventualità spiacevole, ma comprensibile. Gianfranco Polillo spiega perché
Se “errare è umano, continuare è diabolico”. Questo vecchio adagio calza come un guanto sul clima politico di Bruxelles. Nella trattativa avviata per il rinnovo del Patto di stabilità, i vecchi errori del passato sembrano essere destinati a nuova vita. Cambiano leggermente i parametri numerici, ancora avvolti nella nebbia della trattativa, ma le metodiche sono sempre le stesse. Nessuno scostamento rispetto al passato di una decina di anni fa. La maledizione del Six Pack continua a fare vittime. Senza dar luogo ad alcuna riflessione critica sui limiti che ne avevano caratterizzate le decisioni e la scrittura, in quell’ormai lontano novembre del 2011. Epoca in cui furono varati una serie di regolamenti che volevano cambiare il mondo. E invece si sono risolti in un buco nell’acqua.
La “regola” di allora – quella sul debito – prevedeva un arzigogolato algoritmo così articolato: “per la quota del rapporto debito/PIL in eccesso rispetto al livello del 60%, il tasso di riduzione deve essere pari ad 1/20 all’anno nella media dei tre precedenti esercizi (versione backward-looking – approccio retrospettivo – della regola sul debito). La regola è considerata soddisfatta altresì se la riduzione del differenziale di debito rispetto al 60 per cento si verificherà, in base alle previsioni della Commissione europea, nel periodo di tre anni successivi all’ultimo anno per il quale si hanno dati disponibili (versione forward-looking – approccio lungimirante – della regola sul debito). Va anche verificato se lo scostamento dal benchmark di riferimento può essere attribuito agli effetti del ciclo economico”. Più che governance, una semplice cabala.
Un simile risultato aveva richiesto uno sforzo defaticante, reso possibile da un pericolo imminente, quale poteva essere il rischio di contagio da parte della Grecia, allora in profonda crisi finanziaria. Sforzo comunque ritenuto insufficiente, considerato che, a distanza di pochi mesi (1-2 marzo 2012), fu varato un nuovo provvedimento – il Trattato del fiscal compact – che non faceva altro che confermare quanto già previsto dal precedente Regolamento. Non tutti gli Stati membri vi aderirono. Si dichiararono fuori il Regno Unito e la Repubblica ceca. Ma le relative disposizioni furono comunque estese ai rimanenti 25 membri dell’Unione.
Alla fine del 2011, il debito pubblico italiano era pari al 116,72 per cento del Pil. Se si fosse seguito il Regolamento 1177/2011, bissato dal Trattato, nel 2022 il rapporto debito/Pil avrebbe dovuto essere pari al 93,96 per cento. E invece esso è risultato pari al 144,4 per cento. Con uno scarto (reale – previsione) pari a oltre 50 punti. I soliti italiani? Per la verità le stesse incongruenze si riscontrano per l’intera Eurozona. Il dato di partenza, in questo secondo caso, era pari al 91 per cento. Secondo il Regolamento, bissato da Trattato, il rapporto debito/Pil nel 2022 doveva dare come risultato 78,6 per cento. E invece siano a 91,6. Sarebbe andato leggermente meglio considerando l’intera Unione a 27. Ma senza modificare il quadro già indicato.
Quello appena descritto è un semplice esercizio numerico, che ha poco a che vedere con la realtà che governa l’andamento del debito pubblico. Nessun riferimento, infatti, al tasso di crescita nominale dell’economia (supposto pari a zero) così come nessuna considerazione per il deficit di bilancio e le altre variabili finanziarie che, a fine anno, certificano il risultato. Si sarebbe potuto fare meglio? Certamente: bastava che la Commissione europea rispettasse l’articolo 16 del Trattato: “Al più tardi entro cinque anni dalla data di entrata in vigore del presente trattato, sulla base di una valutazione dell’esperienza maturata in sede di attuazione, sono adottate in conformità del trattato sull’Unione europea e del trattato sul funzionamento dell’Unione europea le misure necessarie per incorporare il contenuto del presente trattato nell’ordinamento giuridico dell’Unione europea”. Questa valutazione non si è avuta e il Trattato ha subito, di conseguenza, un processo di ibernazione.
Le incongruenze rilevate sono comunque significative. Dimostrano che non basta lanciare i dadi, nel tentativo di circoscrivere un ipotetico percorso di riduzione del debito, per avere i risultati sperati. Quell’obiettivo non può che essere conseguito all’interno di una visione più complessiva. Che chiami in causa l’intera politica economica di ciascun Paese. Qualcosa che si avvicina molto alle proposte iniziali della Commissione europea, che la successiva reazione tedesca – ma su questo ritorneremo – con troppa facilità ha fatto cadere. Le motivazioni addotte erano quelle di una discrezionalità eccessiva. Della presenza di elementi qualitativi che rischiavano di inquinare la “granitica” (sic!) certezza dei numeri. In definitiva il volersi deresponsabilizzare, per continuare a godere di alcune posizioni di privilegio, anche a costo di mandare tutto alla rovina.
Si parla molto di Christian Lindner, il ministro delle Finanze tedesco, nonché presidente del partito liberale tedesco (FDP). La sua stella polare è il rigore finanziario a prescindere. Posizione comprensibile considerata storicamente la posizione del suo partito. L’errore, semmai, è stato quello di attribuirgli la titolarità del ministero delle Finanze. Un settore in cui la falsa ideologia può procurare danni inverosimili. Da questo punto di vista la scarsa lungimiranza di Olaf Scholz, l’attuale cancelliere, è imperdonabile. Specie se si considera che lo stesso Scholz, nella precedente legislatura, era stato il titolare di quello stesso dicastero. E di conseguenza ne conosceva bene l’importanza strategica. Soprattutto il pregio della moderazione e l’esigenza di favorire il necessario processo di convergenza.
E invece Lindner bisticcia con tutti. Litica in patria, dopo che la Corte costituzionale di Karlsruhe ha smantellato il veicolo finanziario di 60 miliardi di euro, attraverso il quale il governo di Berlino voleva finanziare diverse attività (dagli aiuti all’Ucraina fino alla green economy) al di fuori della cornice del bilancio dello Stato. Si accapiglia con i francesi ai quali non vuol concedere la possibilità di un leggero aumento del possibile deficit di bilancio. Risponde con alterigia a ogni proposta di modifica delle regole del Patto di stabilità. “Non penso che cambiare le regole delle procedure per deficit eccessivo sia necessario”. Grande coerenza si potrebbe dire. Sennonché poi si scopre che, alle prossime elezioni, il suo partito rischia di scomparire dalla scena politica non riuscendo a superare lo sbarramento previsto. La sua intransigenza altro non sarebbe, allora, che il tentativo di calamitare il voto degli scontenti. Costi quel che costi.
Solo che a pagare le conseguenze connesse con quel pugno di voti sarebbe un’Europa sempre più distante dai problemi reali. Mentre il mondo ribolle ai suoi confini. E la sua vulnerabilità, di fronte agli attacchi dei nemici di ieri e di oggi, diventa sempre più preoccupante. Giancarlo Giorgetti, ministro dell’Economia del governo italiano nella sua audizione recente presso le commissioni parlamentari, ha fatto balenare l’idea di un possibile voto contrario dell’Italia alle proposte di riforma del Patto di stabilità. Eventualità spiacevole, ma comprensibile. Nel 2011 l’Italia si arrese senza combattere di fronte al Six Pack e al Fiscal Compact. Ma era un’Italia debole, guidata da un presidente del Consiglio scelto nelle segrete stanze. Oggi c’è invece un governo nella pienezza dei suoi poteri democratici. Può quindi resistere di fronte a soluzioni che, come si è già visto, rischiano solo di creare danni ben maggiori.