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Payback e non solo. La ricetta di Bonaretti per rilanciare gli investimenti pharma in Italia

Tra le proposte, rimborsi più alti per i farmaci prodotti sul territorio nazionale, come fa la Francia, o l’inserimento della spesa per gli innovativi fra gli investimenti e non in spesa corrente, come avviene per la spesa militare. Conversazione con Paolo Bonaretti, esperto del settore, attualmente in Fondazione Enea Tech e Biomedical

Farmaceutico, un comparto peculiare per la salute dei cittadini ma anche per la competitività nazionale ed europea. Una consapevolezza acquisita, ormai da anni, ma che continua a incontrare diverse barriere ad uno sviluppo che risulti omogeneo e durevole e non in balia – come accaduto in passato – di politiche nate per essere transitorie ma destinate, più per lassismo per strategia, a diventare definitive. Ne abbiamo parlato con Paolo Bonaretti, esperto del settore, attualmente in Fondazione Enea Tech e Biomedical.

Nonostante il riconosciuto ruolo strategico del comparto farmaceutico, permangono ostacoli significativi al suo sviluppo. Quali?

Prima di tutto l’incertezza di mercato in cui si trova ad operare, generata da una serie di fattori. Il primo è il payback, di cui si è già parlato moltissimo e a più riprese, e in particolare il payback della spesa ospedaliera, ingiustificato da un punto di visto morale. Il payback nasce per regolare la spesa farmaceutica convenzionata; le aziende, infatti, avendo spesso maggiori competenze specifiche rispetto ai medici di base, riuscivano a condizionare l’incremento di spesa grazie a questa asimmetria informativa. E il sistema ha funzionato per due motivi. Il primo è che effettivamente l’asimmetria c’era, e porre un tetto disincentivava l’eccesso di spesa. Il secondo è che, con la scadenza di molti brevetti, sono subentrati i farmaci generici che, per loro natura, hanno generato un abbattimento della spesa.

L’introduzione del tetto nell’ospedaliera, invece, è assolutamente ingiustificato. In primo luogo perché non vige in alcun modo quella stessa asimmetria fra aziende e primari ospedalieri, a meno che non si ritenga che i primari siano incompetenti, o peggio. Tra l’altro, negli anni il payback è stato ulteriormente appesantito con numerosi interventi normativi, fino all’ultimo di Tremonti che ha tagliato definitivamente il tetto della spesa ospedaliera.

Successivamente sono state introdotte misure correttive, come la creazione dei fondi per i farmaci innovativi. Operazione però depotenziata dalle regioni che, con la benevolenza della Ragioneria dello Stato, hanno preteso che fossero loro redistribuite le risorse che non venivano allocate per i farmaci innovativi. Generando un moral hazard: le Commissioni Aifa sono infatti in gran parte di indicazione regionale. In questo contesto l’innovatività viene riconosciuta con grande difficoltà, in diversi casi la spesa farmaceutica per innovativi non ha esaurito i fondi e i residui sono stati redistribuiti alle regioni.

Nelle ultime leggi di bilancio sono stati operati correttivi, ma non in modo strutturale e seppur mitigata è continuato il forte sottoutilizzo del fondo per la spesa convenzionata e il continuo aumento dello sforamento della spesa diretta (ospedaliera). Forse sarebbe sufficiente un meccanismo di compensazione , anche solo attraverso un sistema di ricalcolo automatico dei tetti nell’anno successivo.

Esistono altre barriere?

Certo, l’incertezza è un fattore chiave con diverse sfaccettature: i tempi di accesso alle autorizzazione per l’immissione sul mercato, ai prontuari regionali, alle procedure di acquisto… Le multinazionali investono in mercati stabili, ma si ritraggono in condizioni di insicurezza. Il 2016 aveva visto una grande apertura nei confronti del settore, con l’Italia che è arrivata ad ospitare il gotha internazionale dell’industria farmaceutica. Tuttavia, le incertezze amministrative e normative successive hanno rallentato gli investimenti delle multinazionali nel nostro Paese. D’altra parte, i molti investimenti degli anni precedenti sono stati realizzati in stabilimenti che producono oggi farmaci di sintesi chimica, o comunque non innovativi, con poche eccezioni come quella recente di Eli Lilly, che ha realizzato ed annunciato investimenti significativi e sta sviluppando nuove pipeline. Anche se, anche in questo caso, i farmaci più rilevanti come quelli per l’obesità di cui si parla moltissimo, non sono ancora prodotti in Italia. Novartis, ad esempio, che pure ha annunciato la entrata in produzione di radiofarmaci innovativi, ha una considerevole produzione in Italia; ma anche in questo caso i prodotti biotecnologici più innovativi, sono fabbricati all’estero. Insomma, possiamo dire che l’Italia ha beneficiato solo marginalmente dello sviluppo straordinario della biotecnologia farmaceutica degli ultimissimi anni.

Ci sono difficoltà anche per l’industria che produce farmaci per la spesa territoriale?

Comunque non derivanti dal payback. Le aziende che producono farmaci per la convenzionata incontrano come unico ostacolo il costo, ancora il più basso tra i grandi produttori farmaceutici europei. Si trovano a dover competere con grandi produttori asiatici di generici che operano con costi significativamente inferiori, come India e Cina.

Come generare un’inversione di tendenza?

La Francia ha adottato un sistema che, a mio avviso, è estremamente efficace, sebbene la sua implementazione in Italia potrebbe essere complessa perché richiede grande forza amministrativa. Il sistema riconosce ai farmaci prodotti nel mercato interno un rimborso superiore da parte del sistema mutualistico, rispetto a quelli prodotti fuori dall’Unione europea. Così, piuttosto che instaurare barriere doganali, il sistema incentiva una premialità sul rimborso, promuovendo la produzione domestica. Ovviamente questa strategia ha favorito il colosso farmaceutico francese,(Sanofi) il cui stakeholder rimane comunque lo Stato.

Secondo lei la politica sta iniziando a capire che frenare lo sviluppo del comparto si rivela un’autorete o piccoli segnali che stiamo ricevendo potrebbero rivelarsi un fuoco fatuo?

La consapevolezza c’è, ma non è omogenea. È presente nel mondo dell’economia e finanza e tra coloro che si occupano di pianificazione economica, ma è assente (o forse rimosso), nella ragioneria generale, il cui focus rimangono unicamente i saldi di finanza pubblica e non la efficacia della spesa di salute .

Ci troviamo di fronte a due spinte contrastanti: da una parte, rafforzare la politica industriale per attrarre investimenti in Italia, specialmente in farmaci e tecnologie all’avanguardia; dall’altra, la preoccupazione per i saldi dei bilanci pubblici. Fino ad ora ha prevalso largamente la seconda.

Lei immagini la difficile posizione di un country manager che si trova a dover giustificare al proprio ceo global, negli Stati Uniti, l’impossibilità di garantire una programmazione economica definita, perché non sa se a fine anno dovrà restituire una parte del suo fatturato… Parliamo tanto di pianificazione, speriamo negli investimenti, ma poi non abbiamo regole numeri certi per sostenerli.

Uno strumento utile (ma questo è un tema di competenza europea) sarebbe quello di contabilizzare la spesa farmaceutica per farmaci innovativi fra gli investimenti e non, come ora, nella spesa corrente: questa misura permetterebbe l’ammortamento della spesa per l’ingresso sul mercato di farmaci innovativi riducendone l’impatto sul bilancio dello Stato. Come oggi avviene per la spesa militare (proiettili inclusi); non si capisce perché altrettanto non si possa fare per la spesa farmaceutica innovativa..

Quindi neanche la pandemia è servita per capire il valore del farmaco per la salute dei cittadini?

L’abbiamo capito, ma non ne abbiamo ancora tratto le conseguenze pratiche in termini di nuovi investimenti e nuovi modelli organizzativi… Ricordiamo ad esempio l’importanza cruciale di attrarre ricerca clinica e preclinica, che ogni tre anni genera nel mondo un valore superiore all’intero Pil italiano. È un settore di grande rilevanza, in cui altri Paesi anche europei hanno compiuto progressi significativi, mentre l’Italia rimane impantanata in una burocrazia normativa che ne impedisce il pieno sviluppo, rappresentando un altro deterrente per gli investimenti aziendali nel campo della farmaceutica, che investe oltre il 16% del fatturato in ricerca.

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