Dal sostegno finanziario ad Hamas fino all’esportazione in Russia di materiale oggetto di sanzioni, l’atteggiamento di Ankara irrita Washington. Che sa di dover mirare ad un accordo con Erdogan
“Siamo profondamente preoccupati”. Sono queste le parole utilizzate da Brian Nelson, il sottosegretario al Tesoro degli Stati Uniti per il terrorismo e l’intelligence finanziaria, per descrivere la reazione dell’amministrazione statunitense al comportamento di Ankara, storicamente collegata ad Hamas, anche come fluidificante per l’accesso alla finanza internazionale del gruppo politico armato palestinese. “Preoccupati per la capacità di Hamas di continuare a raccogliere fondi o trovare sostegno finanziario per le sue operazioni per potenziali futuri attacchi terroristici qui in Turchia” afferma Nelson, all’interno di una conferenza stampa tenutasi a Istanbul.
Il sottosegretario americano specifica come le principali fonti di sostegno economico dell’organizzazione rimangano comunque l’Iran, gli investimenti azionari e le donazioni degli enti di beneficenza internazionali, e che gli Stati Uniti non abbiano rilevato ulteriori flussi di denaro di Hamas attraverso la Turchia dal 7 ottobre. Almeno per ora. “Hamas cercherà di trarre vantaggio” dalla passata benevolenza turca nei suoi confronti “quando raccoglierà ulteriori fondi”, avverte Nelson. Aggiungendo che, sebbene il sostegno pubblico espresso dal presidente turco Recep Tayyip Erdoğan nei confronti di Hamas renda improbabile che la Turchia aderisca alle sanzioni statunitensi contro il gruppo, Washington si aspetta che Ankara utilizzi i propri poteri per limitare l’accesso di Hamas ai propri fondi per via del loro impiego con finalità terroristiche”.
Se anche un media come il Financial Times dedica attenzione all’intervento di Nelson è perché arriva in un momento di particolare difficoltà nei rapporti tra le due potenze parte dell’Alleanza Atlantica. La netta posizione filo-israeliana di Washington la pone infatti in rotta di collisione con Ankara, il cui leader invece ha definito Israele un “Terror State”, accusando il governo di Benjamin Netanyahu di crimini di guerra e chiedendo un processo per gli atti militari indiscriminati commessi nell’invasione della Striscia di Gaza. Una retorica, quella turca, finalizzata a promuovere la sua posizione come punto di riferimento per l’intero mondo musulmano.
Ma il dossier israelo-palestinese non è l’unico punto su cui ultimamente si stanno sviluppando le tensioni tra Usa e Turchia. Sempre il Financial Times riporta come la visita di Nelson di questa settimana non fosse organizzata, almeno originariamente, per ammonire Ankara sui suoi legami con Hamas. Il compito primario del sottosegretario sarebbe stato quello di gestire “gli sforzi per prevenire, interrompere e indagare su attività commerciali e finanziarie che favoriscono l’impegno russo nella sua guerra contro l’Ucraina”. Questa criptica definizione si riferisce alle crescenti evidenze che mostrano come la Turchia svolga un ruolo di intermediario negli approvvigionamenti di materiale militare per Mosca.
Da gennaio a settembre del 2023, la Turchia ha dichiarato di aver esportato 45 tipologie diverse di beni sanzionati per le loro possibili applicazioni militari (sono prodotti impiegati per esempio nella costruzione di missili da crociera, droni ed elicotteri) per un valore di 158 milioni di dollari, verso la Russia e cinque Paesi ex sovietici. Si tratta di un livello tre volte superiore a quello registrato nello stesso periodo del 2022, quando è iniziata la guerra in Ucraina. E più di cinque volte superiore alla media registrata nel periodo 2015-2021. Una crescita simile è stata registrata anche nelle importazioni di queste tipologie di beni, che nei primi nove mesi di quest’anno sono cresciuti del 60% rispetto alla media del 2015-2021.
Cifre presentate anche dallo stesso Nelson durante uno dei suoi interventi: “Negli ultimi 18-24 mesi, purtroppo, abbiamo assistito a un aumento di sei volte della riesportazione di questi componenti dual-use, che destano la massima preoccupazione, attraverso la Turchia. Stiamo cercando di utilizzare tutta la nostra autorità nel modo più creativo possibile per vincere questa sfida”.
Molteplici dunque le cause di frizione tra Occidente e Turchia, che possono (e forse devono) essere interpretate anche come temi di negoziazione e, nel caso di Ankara, vere e proprie fonti di leverage. Soprattutto all’interno delle contemporanee (e interdipendenti) trattative per la compravendita di sistemi aerei F-16 da parte di Ankara e per la ratificazione da parte di quest’ultima dell’accesso della Svezia nell’Alleanza Atlantica.