Il referendum voluto da Maduro (anche per motivi domestici) accentua una delle faglie di instabilità della regione. Che limita l’influenza statunitense e apre la strada a Pechino
Con un referendum che è stato quasi un plebiscito (la percentuale di risposte positive oscilla tra il 95% e il 98%), la popolazione del Venezuela guidato da Nicolas Maduro ha espresso il proprio assenso per l’annessione dell’Esequiba, una regione della confinante Guyana, su cui il Venezuela vanta pretese da più di 200 anni. Regione che negli ultimi decenni è diventata ancora più preziosa alla luce delle riserve di petrolio, gas e oro scoperte nel terreno. Tramite la consultazione referendaria, Maduro mira al doppio obiettivo di rafforzare la propria posizione in vista delle elezioni presidenziali — previste per il prossimo anno — e di legittimare ulteriormente le pretese di Caracas sui ricchi territori adiacenti ai suoi attuali confini.
La legittimità del referendum he non è stata ovviamente riconosciuta dallo Guyana, il cui ministro degli Esteri Robert Persaud aveva dichiarato che l’organizzazione della consultazione, avviatasi a settembre, aveva causato “livelli di tensioni senza precedenti tra i due Paesi”.
Ma la dimensione regionale non è la sola ad essere toccata da queste dinamiche, che anzi vanno a impattare su una serie di questioni afferenti al più ampio sistema internazionale. A partire dagli Stati Uniti. Negli ultimi mesi Washington si era infatti impegnata in una serie di negoziazioni con Caracas, nel tentativo di arrivare ad una distensione con il regime di Maduro. Esito di queste negoziazioni sarebbe stata la promessa di rallentamento del regime di sanzioni imposto sull’esportazione del petrolio venezuelano in cambio dello svolgimento di libere elezioni nel Paese. Con molta probabilità lo svolgimento di questo referendum causerà una battuta d’arresto, se non una vera e propria retrocessione, nel processo avviato dall’amministrazione Biden.
In primis per la forte cooperazione esistente tra gli Stati Uniti e la Guyana. Le forze armate statunitensi svolgono in Guyana un’esercitazione a cadenza annuale chiamata “Tradewinds”, che vede il coinvolgimento anche delle forze armate locali, a cui si aggiungono frequenti esercitazioni bilaterali delle marine di Washington e Cayenne. Inoltre, l’esercito statunitense ha appena inviato in Guyana un corpo militare come “forza di assistenza alla sicurezza”. E nemmeno il mancato sostegno statunitense alla Guyana per l’ottenimento di un prestito attraverso la Banca Interamericana di Sviluppo, richiesto per costruire le infrastrutture atte all’estrazione delle abbondanti risorse petrolifere, sembra aver danneggiato in modo sostanziale i rapporti diplomatici.
Sebbene però aveva aperto un margine d’azione alla Repubblica Popolare Cinese. Il governo di Pechino ha infatti colto quest’opportunità per rafforzare la sua presenza in Guyana, dove già aveva forti interessi. Alle importazioni di petrolio greggio, prodotti acquatici, zucchero, legname e rum provenienti dal Paese sudamericano, la Cina risponde offrendo servizi per la costruzione delle infrastrutture, secondo un copione ben rodato. Ma Pechino è tanto vicino a Cayenne quanto a Caracas: non è un caso che, negli stessi giorni del G20 snobbato da Xi Jinping, Maduro si sia recato in visita proprio dal Segretario Generale del Partito Comunista Cinese. E che al suo ritorno abbia avviato il processo di escalation sulla regione contesa con la Guyana.
Anche se non è da escludere, al momento l’intervento militare da parte di Caracas non sembra un’eventualità probabile. Mentre uno scenario di agitazioni messe in atto dalla popolazione locale istigata dai servizi di Caracas, sulla falsa riga di quanto avvenuto in Ucraina orientale nel 2014, appare molto più realistica. E molto più difficile da gestire per il mondo occidentale.