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La strategia di Putin passa dal Medio Oriente. Conversazione con Di Liddo (Cesi)

Qatar

Il tour nella penisola araba è una delle componenti della strategia mediorientale di Putin. A sua volta una componente della più ampia visione del Cremlino. Il direttore del Centro Studi Internazionali delinea quali siano i collegamenti tra queste dinamiche

Nelle scorse ore il presidente della Federazione Russa Vladimir Putin ha intrapreso un tour diplomatico del Medio oriente. Le occasioni in cui il leader di Mosca si è recato fuori dai confini nazionali sono diventate sempre più rare, a causa del mandato d’arresto della Corte Penale Internazionale che pende sulla sua testa. Ed eccezione della visita in Cina, fatta in occasione del terzo forum sulla Via della Seta, Putin non si era mai spinto oltre i confini sicuri dell’ex-Unione Sovietica.

Eppure, il 6 dicembre il leader russo si è recato di persona negli Emirati Arabi Uniti, dove sono in corso i lavori della Cop28 (scegliendo accuratamente la data per evitare la presenza di qualsivoglia leader occidentale). Al suo arrivo Putin è stato accolto con tutti gli onori dal presidente emiratino Sheikh Mohammed Bin Zayed Al Nahyan e dai velivoli dell’aviazione di Abu Dhabi che hanno dipinto in cielo la bandiera tricolore della Federazione Russa. Proseguendo poi il suo viaggio in Arabia Saudita.

“Questo viaggio è strettamente necessario per una serie di motivi, diversi ma collegati, afferenti alla dimensione politica e a quella economica” commenta con Formiche.net Marco di Liddo, direttore del Centro Studi Internazionali. “Il primo motivo ‘politico’ è di lungo periodo: questo tour diplomatico è finalizzato a rafforzare una proiezione diplomatica russa verso i Paesi del golfo, avviata già nel 2015 con la scelta russa di intervenire nel conflitto in Siria. Questa proiezione vuole offrire alle monarchie del golfo una sponda diplomatica russa su tematiche di interesse comune. Va dunque interpretata come un investimento nel progetto russo di revisione degli equilibri internazionali in chiave multipolare. Nel breve periodo invece questa visita è legata a doppio filo alla crisi in medio Oriente e allo sforzo russo di accreditarsi come interlocutore al tavolo dei negoziati dove verrà delineato il futuro ordine mediorientale. Ma, come accennavamo, questo viaggio ha anche una netta sfumatura economica. Da quando è scoppiata la guerra in Ucraina tantissime imprese russe si sono spostate negli Emirati e in Arabia Saudita, trasferendo capitali ma anche aprendo aziende in loco. Questo perchè bisognava far scappare il denaro dalle banche sanzionate, evitando sia il congelamento dei beni che la chiusura europea ai capitali russi; allo stesso tempo, serviva investire in strutture che agevolassero la pratica della triangolazione al fine di eludere le sanzioni occidentali a 360 gradi: da quelle finanziarie a quelle legate alla logistica portuale, alle assicurazioni navali, all’import-export di tecnologia”.

Di Liddo ricorda anche come tanto la Russia quanto gli Emirati Arabi e l’Arabia Saudita siano membri del formato Opec+, responsabile della regolazione della produzione di petrolio a livello internazionale e fondamentale strumento per tenere la produzione del petrolio bassa e il prezzo conseguentemente alto. Così da massimizzare gli introiti petroliferi di Mosca limitando (assieme ad altre misure) il famoso Oil Price Cap imposto dall’Ue nei suoi pacchetti di sanzioni.

A riprova dell’importanza del Medio Oriente nella strategia russa sul piano internazionale. “Il 2014, con l’annessione della Crimea e l’inizio de facto della guerra con l’Ucraina, è un turning point nella politica estera russa, perché da quel momento in poi Mosca realizza come i suoi tradizionali vettori diplomatici ed economici lentamente avrebbero perso sostanza. Al Cremlino non sono ingenui: già allora sapevano che l’operazione in Ucraina, anche se condotta secondo modalità ibride e a bassa intensità, avrebbe causato un irrigidimento nelle relazioni tanto nell’immediato quanto nel futuro” spiega l’analista del Cesi, che poi prosegue: “Date le circostanze, Mosca deve trovare altri vettori diplomatici”.

In quali direzioni dovrebbe muoversi? “Sono tre: una è quella cinese, una è quella africana, e l’ultima è, ovviamente, quella mediorientale. Una volta che i russi piantano stabilmente il seme della loro presenza in Africa e in Medio Oriente, e migliorano i rapporti con la Cina, la diminuzione della presenza volumetrica seguita all’intensificazione delle attività militari in Ucraina, e quindi al bisogno di dover reindirizzare risorse dispiegate altrove, non intacca drasticamente l’impatto qualitativo. Quello che è stato costruito rimane, perché è stato costruito per essere stabile. Con l’intervento in Siria i Russi dimostrano di aver raggiunto il proprio obiettivo, seppur con mezzi ridotti rispetto ad interventi simili realizzati dall’Occidente. E gli attori regionali non possono ignorare questa realtà. I Sauditi capiscono come in fondo ci siano tante linee comuni con la Russia, a cominciare dal cooperare per controllare il mercato petrolifero; inoltre, vedono in Mosca un possibile partner con cui collaborare mentre gli Usa cambiano i termini del loro impegno mediorientale”.

Questo approccio, sottolinea Di Liddo, consente a Mosca di continuare a rimanere presente in regioni dove può portare avanti la sua competizione con l’Occidente, creando problematiche ulteriori e cercando di erodere la presenza occidentale in loco. “Affermando un multipolarismo che si contrappone all’unipolarismo statunitense, e dimostrando così al mondo che la Russia è ancora un attore di rango globale. Perché non agisce soltanto nello spazio post-sovietico ma continua, pur con strumenti limitati, ad essere presente in vari teatri globali”.

Seguendo un approccio pragmatico, suggerisce in chiusura l’esperto: “Mosca in Medio Oriente parla con la Siria che è un paese multiconfessionale a maggioranza sunnita ma governato dagli alawiti, e quindi dagli sciiti; allo stesso tempo ha ottimi rapporti con i Sauditi, punto di riferimento sunnita, e con l’Iran, paese sciita per eccellenza. Grazie al suo approccio pragmatico che la spinge verso cooperazioni di interesse: non alleanze strutturate come una Nato o un Patto di Varasvia, ma una serie di dialoghi bilaterali da inserire in un’architettura complessa su singoli dossier. Sul modello dei Brics, cioè Paesi che hanno alcuni punti in comune, ma tanti punti in disaccordo; eppure cooperano comunque per cercare di promuovere i propri interessi, pur rimanendo consapevoli delle loro diversità”.



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