Secondo l’esperto di strategia statunitense, il modo migliore per contrastare le mire espansionistiche di Pechino è quello di costruire un sistema difensivo condiviso e accessibile a tutti gli attori regionali. Lavorando su una base già esistente
Nel teatro del Pacifico tutti gli attori presenti, dagli Stati Uniti al Giappone, dalle Filippine al Vietnam, da Taiwan all’Indonesia, sono accomunati da un tratto caratteristico, ovvero l’interesse al mantenimento dello status quo. Tutti tranne uno: la Repubblica Popolare Cinese. Eppure, la Cina è l’unico attore che ha destinato le proprie risorse alla costituzione di un sistema di difesa integrato basato sulle capacità missilistiche e satellitari, sistema che l’esperto di strategia Andrew Krepinevich ha denominato “Anti-Acces/Area Denial” (o più semplicemente A2/AD). Oramai da molto tempo gli analisti occidentali si impegnano per trovare un modo efficace di “bucare la bolla A2/AD” costruita da Pechino. Ma se invece ci si concentrasse sull’approccio opposto?
È questa la tesi che il politologo Peter Singer, professore dell’Arizona University e Strategist presso la New America Foundation, promuove in un articolo pubblicato su Defense One. Secondo Singer, gli sforzi degli Stati Uniti e dei suoi alleati dovrebbero concentrarsi proprio sulla creazione di un apparato difensivo capace di proteggere le proprie basi e i territori sotto il proprio controllo, basato su una logica di cost-advantage capace di scoraggiare ogni avventata azione offensiva da parte della People Liberation Army. E per raggiungere quest’obiettivi, Singer individua tre principali dimensioni su cui lavorare.
A partire dalla difesa del territorio, del dominio aereo e di quello marittimo in modo efficace contro azioni a diverso grado di intensità. Le operazioni in zona grigia sono diventate la norma. Dagli spazi aerei del Giappone e di Taiwan, dove le provocatorie incursioni di caccia dell’areonautica di Pechino avvengono su base routinaria, alle Filippine, dove imbarcazioni cinesi commettono atti ostili che mettono a rischio l’incolumità degli asset e dei cittadini di Manila. L’obiettivo di Pechino è chiaro: logorare e stressare i sistemi socio-politico-militari, erodendo sia il budget che il morale nemico, e allo stesso tempo trasformare le norme, finché non saranno le zone di incursione a diventare i nuovi confini.
La seconda dimensione è il rafforzamento dei legami di cooperazione tra alleati. Sul modello dell’alleanza tra Stati Uniti e Giappone, che va oltre i trattati e la condivisione di materiale militare, e anzi trova la sua vera forza nelle relazioni umane che nelle reti informative condivise. Queste si estendono dalle reti di computer e sensori per la difesa aerea agli scambi di informazioni promossi dagli ufficiali degli staff congiunti. Tale interconnessione migliora la deterrenza, sia inviando un chiaro messaggio ai potenziali aggressori che aumentando le effettive capacità di difesa. “Estendere questo modello oltre il Giappone e l’Australia a un maggior numero di Paesi del Sud-Est asiatico non è solo strategico, è essenziale” scrive Singer nel suo articolo.
Infine, l’ultima dimensione riguarda l’aspetto economico: il budget stanziato per affrontare queste sfide dovrebbe essere in linea con le reali esigenze degli altri attori dell’area. Anziché puntare su costosi e sofisticati asset impiegabili soltanto da un numero limitato di Paesi con sufficienti capacità, si deve mirare alla costituzione di una rete plug-and-play aperta e accessibile a tutti gli Stati interessati. Questo approccio non solo favorisce la cooperazione, ma facilita anche la rapida condivisione delle informazioni e delle competenze umane, costruendo il vero tipo di partnership auspicato dal politologo poco prima.
Non jet e navi da battaglia, dunque, ma una difesa aerea mobile ed economica e missili antinave costieri difficili da trovare e distruggere, due capacità che negherebbero alla Cina la superiorità aerea e marittima. Capacità che sono inoltre intrinsecamente difensive e quindi meno controverse da acquistare, una questione chiave sia per i loro governi e le loro opinioni pubbliche sia per la loro interazione con Pechino, in quanto rappresentano una minaccia solo se è la Cina a scegliere di attaccare per prima.
“Le sfide che condividiamo in Asia” conclude Singer “richiedono di riconoscere la realtà della nostra situazione e di investire saggiamente in soluzioni accessibili ed efficaci. In questo modo, possiamo creare partenariati più profondi, aumentare la sicurezza regionale e inviare un messaggio risoluto che complichi qualsiasi piano di aggressione nella regione”.