L’analista della Difesa Usa descrive in un articolo pubblicato da Foreign Affairs quali siano i possibili scenari che porterebbero all’emergere di un confronto militare tra Pechino e Washington. Spiegando anche come evitare escalation e sviluppi non desiderati
Nomen omen. E, non a caso, per il suo articolo pubblicato su Foreign Affairs Andrew Krepinevich Jr. ha scelto un titolo molto significativo: “The Big One”, “Quella Grande”. Il riferimento è ad un eventuale guerra combattuta tra Stati Uniti e Cina, che nel sottotitolo viene presentata come una “lunga guerra”. Un’analisi pesante, come pesante è il nome dell’autore. Krepinevich, senior fellow dell’Hudson Institute e adjunct senior fellow del Center for a New American Security, è uno studioso di lungo corso nel campo della competizione strategica sino-americana, nonché padre del concetto strategico di Anti-Access/Area Denial sviluppato proprio in riferimento al contesto cinese e poi impiegato per descrivere le capacità di altri attori, in primis quelle russe.
Nel suo articolo, Krepinevich offre un’estensiva analisi di scenario, prendendo in considerazione tutte le possibili variabili. A partire da quella principale, ovvero l’escalation nucleare. L’analista statunitense ritiene che questa eventualità rimanga remota (anche se non impossibile), sulla base di quanto avvenuto durante la Guerra Fredda: in questo frangente le due principali superpotenze hanno portato avanti dinamiche di confronto militare senza però arrivare all’impiego di ordigni atomici, con le leadership di entrambi i Paesi ben consapevoli del concetto di Mutual Assured Destruction. Washington e Pechino devono evitare di infrangere le rispettive red lines, assieme a quelle degli altri attori coinvolti, per evitare una pericolosa escalation difficile da disinnescare.
Vengono poi presi in considerazione i possibili casi belli capaci di far scoppiare questa guerra. Sebbene Taiwan rappresenti, per una moltitudine di motivi, la miccia più probabile per la deflagrazione del conflitto, anche le azioni provocatorie in territorio giapponese, filippino o vietnamita, così come il riaccendersi delle tensioni tra le due Coree o addirittura un’eventuale aggressione ai danni dell’India da parte di Pechino, potrebbero fornire il contesto ideale per scatenare un confronto militare tra la superpotenza americana e il gigante asiatico.
Confronto militare che potrebbe evolversi secondo dinamiche differenti. Prendendo come riferimento Taiwan, Krepinevich suggerisce tre diversi possibili sviluppi nelle operazioni: il primo è quello del fait accompli, in cui la People Liberation Army (Pla) riesce a prendere il controllo dell’isola con un impiego integrato delle proprie capacità militari tale da sopraffare rapidamente le forze presenti in loco, prima dell’arrivo dei rinforzi dalle basi vicine; il secondo è quello del respingimento dell’assalto di Pechino da parte delle forze di difesa a guida statunitense, che con un efficace utilizzo delle proprie capacità militari negherebbero alla Pla il controllo del dominio aereo, di quello navale e di quello cibernetico, costringendo Pechino a rinunciare all’operazione. Entrambi questi scenari vedrebbero il conflitto chiudersi rapidamente, a favore di una o dell’altra parte.
Vi è però anche la terza possibilità, “una che non è semplicemente plausibile, ma forse probabile” nelle parole di Krepinevich, ovvero quella del protrarsi di un conflitto convenzionale tra Stati Uniti e Repubblica Popolare (la “lunga guerra” evocata nel sottotitolo), che non si limiterebbe ad una sola area geografica specifica ma anzi si dipanerebbe attraverso teatri differenti.
In questo caso, i contendenti avrebbero a disposizione de diverse strategie da adottare per sottomettere l’avversario: quella dell’annihilation, incentrata sulla manovra, dove attraverso un singolo evento o una rapida serie di azioni si mira a far crollare la capacità o la volontà di combattere di un nemico; quella dell’attrition, strutturata attorno all’esaurimento del potenziale bellico del nemico attraverso l’attrito, logorando le sue forze militari per un periodo prolungato, fino al punto in cui non possano più opporre una resistenza efficace; infine, quella dell’exhaustion, che cerca di esaurire le forze del nemico indirettamente, ad esempio negandogli l’accesso a risorse vitali attraverso blocchi, degradando le principali infrastrutture di trasporto o distruggendo impianti industriali chiave.
Ma, soprattutto nei primi due casi, il rischio di escalation nucleare diventa pericolosamente più concreto. Ma vi sono delle possibili salvaguardie indicate dall’autore, come la neutralizzazione degli asset nemici anziché la loro distruzione (quando possibile), o la scelta di perseguire un’escalation geografica (“orizzontale”).
Krepinevich evidenzia anche quali strade possono essere percorse da Washington e dai Paesi amici per migliorare la propria “readiness”, dal preventivo accumulo di materiale militare e non (necessario per fronteggiare l’inevitabile disruption nel sistema di scambio globale) allo sviluppo di un dettagliato concetto operativo, esattamente come fatto ai tempi della Guerra Fredda con l’AirLand Battle. Così da convincere Pechino di avere le risorse e la capacità di resistenza necessarie per prevalere in questa lunga guerra. In caso contrario “la Cina potrebbe concludere che le opportunità offerte dall’uso della forza militare per perseguire i propri interessi nell’Asia-Pacifico sono superiori ai rischi”, asserisce in chiusura Krepinevich.