Nel Paese dell’ex-Jugoslavia si svolgono oggi le elezioni per il rinnovo del Parlamento, che sono però anche un espressione sull’operato del presidente in carica. E sulla postura geopolitica di Belgrado, nettamente propensa verso Mosca. Alla quale esiste però un’alternativa…
Da questa mattina in tutto il territorio serbo sono stati aperti i seggi elettorali. Ai sei milioni e mezzo di cittadini aventi diritto di voto sarà chiesto di recarsi al seggio per esprimere la propria preferenza, sia per il rinnovo del Parlamento che per una serie di amministrazioni locali, compresa quella della capitale Belgrado. Ma vi è anche un’ulteriore chiave di interpretazione per questa tornata elettorale: il voto della popolazione serba sarà una cartina al tornasole per vedere quanto solido sia il consenso nei confronti del presidente Aleksandar Vucic e del suo Serbian Progressive Party.
Queste elezioni parlamentari sono state infatti convocate a soli diciotto mesi di distanza dall’ultima tornata, in risposta alle forti proteste che hanno attraversato il Paese balcanico. Le principali cause di queste forti espressioni di dissenso sono stati temi securitari (e in primis le due sparatorie di massa avvenute nel maggio di quest’anno, dove sono state registrate nove vittime) e questioni economiche, come l’inflazione galoppante (che a novembre si attestava intorno all’8%). A cui si aggiungono le accuse mosse dai partiti di opposizione e dagli organismi di controllo del rispetto dei diritti, che accusano Vucic e il suo partito di soffocamento della libertà dei media, violenza contro gli oppositori, corruzione e legami con la criminalità organizzata.
Le consultazioni elettorali serbe sono relativamente importanti, a causa della particolare situazione geopolitica del Paese, inscritta in quella della più grande area balcanica. Storicamente, la Serbia è stata (ed è tutt’ora) uno dei Paesi più vicini a Mosca, per motivazioni culturali e religiose, ma anche politiche e militari. E questa vicinanza, più che promossa da Vucic e dal suo partito di ispirazione nazionalista, nel momento storico attuale ha delle ripercussioni non trascurabili. A partire dalla decisione della Serbia di non aderire, unico paese in Europa, al “fronte delle sanzioni” che si è venuto a costituire contro Mosca all’indomani della sua invasione dell’Ucraina nel febbraio 2022. Ma la postura filo-russa di Belgrado potrebbe risultare problematica in contesti ben più rilevanti, come ad esempio quello della stabilità. Il Cremlino potrebbe infatti spingere i suoi alleati a favorire un accrescimento delle tensioni nella zona, aprendo un fronte interno all’Europa e al blocco occidentale, distraendo così la loro attenzione e le loro risorse dal conflitto ucraino.
Ovviamente, il luogo dove questo rischio rimane più concreto è la regione del Kosovo, che ha dichiarato unilateralmente la propria indipendenza dalla Serbia nel 2008 ma che continua a vivere rapporti molto conflittuali. Non è un caso che nel maggio di quest’anno (proprio quando la controffensiva ucraina sembrava in procinto di cominciare), le tensioni interetniche in Kosovo abbiano raggiunto nuovi picchi, mentre Belgrado ammassava uomini e mezzi militari lungo il confine con la regione separatista, di cui non ha mai riconosciuto l’indipendenza.
La scelta dei serbi avrà ripercussioni importanti. Qualora decidessero di esprimersi a favore di Vucic, essi sosterrebbero la postura “forte” di Belgrado in Europa e nel mondo, che si sostanzia nella vicinanza a Mosca, nella lontananza da Bruxelles e nella conflittualità con Pristina. Qualora invece fosse l’opposizione ad uscire vincitrice dalle urne, potrebbe aprirsi un nuovo capitolo per la Serbia, indirizzato in una direzione totalmente opposta alla precedente: unendosi al regime di sanzioni occidentali e riconoscendo formalmente l’indipendenza del Kosovo, Belgrado potrebbe segnare un suo distacco da Mosca e un suo attivo avvicinamento all’Unione Europea, ridando vitalità ad un processo di adesione all’Ue oramai arenato da tempo.