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Perché è l’ora di garantire una riserva di umanità. Parla Flick

“È ormai acquisita la consapevolezza che il patrimonio storico-artistico è un patrimonio globale dell’umanità al pari di quello ambientale. La geopolitica della cultura e del bene comune è globale perché a tutti è comune il bisogno di estetica, di bellezza, di paesaggio, di ambiente”. Conversazione con il Presidente emerito della Corte Costituzionale, Giovanni Maria Flick, autore di “Il filo rosso della giustizia nella Costituzione. Un percorso di vita”, edito da Giuffrè

A margine dell’incontro “Il filo rosso della giustizia nella Costituzione: diritti, garanzie e umanesimo penale”, organizzato da Vincenzo Mongillo, docente presso UnitelmaSapienza, il 28 novembre scorso, è stato presentato il volume del Presidente emerito della Corte Costituzionale prof. Giovanni Maria Flick “Il filo rosso della giustizia nella Costituzione. Un percorso di vita”, edito da Giuffrè nel 2023. Del libro, e non solo, ne abbiamo parlato con il Presidente Flick.

Dalla “storia” alla “geografia” della cultura e della ricerca. È stata utile, secondo lei, per l’evoluzione della “storia” del diritto la riflessione sui cambiamenti che si sono via via accumulati nella sua formazione come scienza?

Penso in particolare alla progressiva acquisizione di conoscenze come quelle derivate dalle neuroscienze. Hanno condotto alla integrazione di schemi e strumenti classici e tradizionali di giudizio (ad esempio i concetti di responsabilità, di causalità, di imputabilità, di colpevolezza), a sostegno dell’accertamento che il giudice deve compiere con gli strumenti nati dalla filosofia classica e consolidata dalla logica cartesiana del cogito ergo sum. Quegli strumenti– in una ulteriore evoluzione auspicata da alcuni e temuta da altri – si potrebbero sostituire con altri nati dalle più recenti acquisizioni scientifiche sul funzionamento della mente umana, come quelli proposti ad esempio dall’intelligenza artificiale. Essi nel settore della giustizia vengono ad esempio offerti dalla tecnologia al giudice e all’avvocato attraverso la ricerca di precedenti per la decisione di un caso o per la valutazione di una prognosi di pericolosità sociale, in una delle numerose applicazioni della intelligenza artificiale generativa e predittiva, anzi da ultimo “generale”.

Cosa suggerisce l’esperienza, di fronte alle novità della ricerca scientifica?

L’esperienza suggerisce di proporre una riflessione simmetrica sulla “geografia” del diritto (soprattutto di quello penale), sull’estensione dei suoi territori e dei suoi confini – con particolare riferimento a quelli contigui dell’etica – di fronte alle novità della ricerca scientifica. Queste novità hanno quasi cancellato il rifugio dell’hic sunt leones, proposto dalla logica di fronte all’ignoto o all’indimostrabile. Esplorare il contenuto e i confini del diritto rispetto all’etica, nello spazio della cultura e della ricerca, richiede innanzitutto il ricorso alla Costituzione italiana: “carta geografica” e manuale della convivenza se non oggi della sopravvivenza in un contesto di disorientamento e di problemi della globalizzazione e del post-globale. La sequenza fra questi momenti è chiara ed esplicita nell’articolo 9 della Costituzione – nel novero dei “principi fondamentali” – tra la cultura, di cui la Repubblica promuove lo sviluppo; la ricerca scientifica e tecnica (sia pura che applicata, ancorché la loro distinzione appaia ormai usurata) che la Repubblica promuove; la tutela del paesaggio (rectius: dell’ambiente) e quella “del patrimonio storico e artistico della Nazione”, quasi come frutto di quella cultura.

Parliamo della recente pandemia. Molti credono che la domanda di cultura ha subito un duro colpo con l’emergenza della pandemia. Cosa ne pensa al riguardo?

Sono assolutamente d’accordo. Sia perché a torto è stata da molti considerata parte del “superfluo” come divertimento e distrazione; sia perché le modalità dell’accesso ad essa comportavano rischi e paura del contagio a causa della presenza fisica in luoghi pubblici durante il lockdown. Per contro, quelle modalità hanno comportato una crescita della lettura di libri e della domanda di cultura nel chiuso della casa e sulle piattaforme digitali. Altro diverso e ben più grave problema è quello rappresentato dalla difficoltà e dalla crisi della didattica a distanza, le sue carenze e i problemi verificatisi in essa nel percorso di formazione scolastico dei giovani durante la pandemia, per la chiusura protratta di scuole ed istituti di insegnamento ai vari livelli. Ma questi problemi esulano dal perimetro delle presenti riflessioni.

Quant’è importante il valore della storia e della cultura nell’ambito di queste sue riflessioni?

Nell’ottica di queste riflessioni sembra ormai acquisito che abbiamo cominciato a renderci conto tutti o quasi del valore della storia e della cultura per scoprire le conseguenze potenziali o effettive di una egemonia tecnico-finanziaria frutto del percorso sorprendentemente rapido della transizione tecnologica e dei suoi risultati. È il rischio di una conoscenza che produce un progresso definito da papa Francesco “regresso”, perché non è anche necessariamente una acquisizione di responsabilità consapevole; può risolversi in istruzione e in erudizione, ma non necessariamente in educazione. È una conoscenza che incide soprattutto sulla formazione dei giovani e sulla loro preparazione alla vita e alla comunità; confonde l’etica con il moralismo, la maturità e la consapevolezza con l’erudizione spesso arida, noiosa, inutile e superflua. Soprattutto non si preoccupa della nostra responsabilità verso noi stessi, verso gli altri e verso la natura; una responsabilità che nasce prima di tutto dal legame tra i diritti inviolabili e i doveri inderogabili di solidarietà (così l’articolo 2 della Costituzione) nelle formazioni sociali in cui si sviluppa la personalità.

La globalità del patrimonio culturale come bene comune e la guerra. Cosa ci hanno insegnato le guerre di ieri e quelle di oggi?

È ormai acquisita la consapevolezza che il patrimonio storico-artistico è un patrimonio globale dell’umanità al pari di quello ambientale. La geopolitica della cultura e del bene comune è globale perché a tutti è comune il bisogno di estetica, di bellezza, di paesaggio, di ambiente. Potremmo entrare in una logica diversa che ponga come primo articolo della Costituzione il tema della bellezza o la gioia, per cui essa potrebbe aprirsi con: “L’Italia è fondata sulla bellezza”, paradossalmente sostituendo quest’ultima al fondamento del lavoro. Si tratterebbe però di una affermazione che non definisce cosa sarà l’Italia e cosa sia la bellezza; oltretutto è una affermazione in contrasto con le troppe devastazioni del paesaggio e dell’ambiente da cui è segnato il nostro paese. Occorre non dimenticare mai il collegamento tra una teorizzazione non astratta e non fine a sé stessa e la concreta regolazione della realtà. Invece è evidente e fondamentale la concretezza dell’articolo 9 della Costituzione, che va applicato e non solo enfaticamente enunciato; e che fonda una cultura ben più ampia per l’ambiente naturale ed umano e per la loro reciproca interazione.

Quant’è importante la tutela del nostro patrimonio storico artistico per il futuro delle nuove generazioni?

Tuteliamo il passato, il patrimonio storico e artistico per costruire il futuro e il patrimonio ambientale di quest’ultimo attraverso la chiave e lo strumento della cultura. Soprattutto quest’ultima consente di capire l’importanza di entrambe le dimensioni passato e del futuro e di collegarle per vincere il ripiegamento nel “presentismo”: guardare soltanto a ciò che capita adesso e a me; il passato non importa perché io non c’ero ancora; il futuro non importa perché non ci sarò più. Quello che vale per il rapporto tra gli individui che diventano persone attraverso la relazione con gli altri deve valere anche per il rapporto fra Stati. La guerra è il momento della sopraffazione, ma anche del furto dell’identità culturale di un Paese, della sua anima, della sua bellezza; la pace è una condizione essenziale e uno strumento indispensabile per ridare a ciascun paese e a ciascuna persona ciò che a loro era stato rubato. Occorre restituire a un popolo gli elementi che costituiscono la sua identità; tra essi vi sono le opere che testimoniano il suo passato. Per operare concretamente a favore della pace in terra possono offrire un contributo essenziale le risorse della memoria del passato e della speranza nel futuro. Il collegamento tra il passato (il patrimonio storico-artistico) e il futuro (prima visto nel paesaggio; poi ed ora esplicitamente nell’ambiente con le sue potenzialità e implicazioni) si realizza attraverso la cultura; ma anche attraverso il riconoscimento delle possibilità di crescita economica e di occupazione che la testimonianza di quel patrimonio rappresenta per il Paese.

Il paesaggio deve essere visto o deve essere anche vissuto?

Non c’è dubbio che debba essere vissuto. Lo stesso discorso vale anche per il risultato dell’attività umana testimoniata dalla ricerca: l’articolo 9 della nostra Costituzione è una grande novità da questo punto di vista; anche se c’erano già stati precedenti quali le leggi Bottai del 1939 a difesa di una cultura sul patrimonio storico del passato. L’articolo 9 della Costituzione è una delle norme più stimolanti di essa. Istituisce un rapporto tra passato, patrimonio storico, artistico e archeologico, progetto ambientale e futuro soprattutto alla luce delle prospettive e delle potenzialità aperte dalla nuova recente e più ampia formulazione di esso e dell’articolo 41. Un futuro che però adesso sta assumendo le tinte fosche di una previsione negativa di fronte a tutti i problemi sociali e ambientali che viviamo, a cominciare dalle conseguenze della pandemia per precipitare in quelle della guerra. Una conoscenza senza la virtù, in tutti i significati che sono attribuiti a quest’ultima, è una conoscenza mutilata, parziale, ridotta; perde notevolmente il suo valore. È un tema cui sinora abbiamo pensato troppo poco; è una riflessione che vale per l’ambiente, per le città, le foreste, la campagna e per il panorama ma anche per i beni archeologici e artistici in quanto beni comuni. Abbiamo avuto in passato (e ancora oggi) la tendenza a radicare i beni, le realtà materiali e non solo quelle all’interno di due categorie rigide: pubblico o privato. Queste a loro volta si articolano in una serie di sottocategorie: ad esempio nell’ambito del pubblico c’è il demanio statale, il demanio regionale, il patrimonio disponibile. Inoltre, vi è una complessa elaborazione sul rapporto tra il bene pubblico e la gestione di esso da parte del privato. Stiamo lavorando tuttavia secondo una logica ormai sorpassata che non pare abbia avuto particolare incidenza anche nel campo dell’arte, della ricerca storica e dell’archeologia.

Cosa bisogna fare?

Si devono invece assicurare la fruibilità collettiva e il godimento di un bene da parte di tutti, indipendentemente da chi ne è proprietario e iscrive la sua proprietà in un registro pubblico o privato. È chiaro che se il bene è un bene pubblico sarà maggiore lo spazio di intervento: ma occorrerà sempre il contributo del 11 settore privato per una sinergia che è indispensabile alla sua cura e conservazione. È quindi lecito lo “sfruttamento” delle potenzialità economiche del patrimonio storico-artistico, però con la cautela che deriva dalla necessità di non trasformarlo in una realtà esclusivamente economica. Gli investimenti privati in questo ambito, a fronte della carenza di investimenti pubblici, possono invece – accanto e nonostante le finalità di profitto – essere realizzati anche a fine di promozione del marchio, di cultural washing, di strategia promozionale grazie a restauri e allestimenti di mostre per beni culturali che rischiano il degrado o un uso improprio. Sempre che non si risolvano in operazioni culturali fittizie per ragioni di pubblicità. Quello “sfruttamento” non può invece risolversi in una prospettiva di indifferenza verso gli abusi edilizi e paesaggistici e i sacrifici imposti al patrimonio storico, artistico e archeologico, per realizzare infrastrutture moderne e necessarie. Il patrimonio archeologico come quello storico e artistico sono patrimoni globali, beni comuni dell’umanità. Per questo, tra l’altro, occorre operare o per le restituzioni di beni che sono stati asportati; o quantomeno per un approccio che sia diretto alla leale collaborazione non solo tra lo Stato e le regioni ma anche tra gli Stati.

Una conclusione o una premessa?

Le condizioni attuali del pianeta impongono una transizione ecologica urgente. Essa inevitabilmente (entro certi limiti, per fortuna) è accompagnata da una transizione tecnologica. La consapevolezza dei rischi ambientali in senso ampio, che rendono urgente la transizione ecologica, non è ancora maturata anche nella consapevolezza per i rischi della transizione tecnologica, a fronte delle sue molteplici suggestioni e proposte. I rischi di una transizione tecnologica senza limiti e controlli possono ostacolare non solo il percorso della ricerca scientifica ma anche ritardare la transizione ecologica. Possono altresì e soprattutto mettere in forse la centralità della persona umana nel nostro sistema di vita e il nostro rapporto equilibrato con la natura, la terra e la scienza; possono compromettere la “riserva di umanità” indispensabile in molti settori, a cominciare ad esempio da quello della giustizia. Insomma attraverso la tecnologia si rischia che la civiltà umana venga sostituita prima o dopo da una “civiltà delle macchine” nel senso più drastico e inaccettabile dell’espressione. Questa prospettiva si accompagna al mutamento del confronto – ora ancor più evidente – fra cultura e profitto in uno ben più pericoloso. È il confronto tra cultura e potere se si guarda da un lato alla reciprocità del vincolo e della sinergia tra loro (il primo genera il secondo e viceversa); se si guarda da un altro lato alla possibilità e alla capacità della tecnologia di incidere con i suoi strumenti sulle scelte e decisioni della persona, sulla identità e sul funzionamento già in difficoltà della democrazia. Forse è l’ora di svegliarsi; il richiamo al valore e al principio fondamentale dello “sviluppo umano sostenibile” nella Costituzione può essere utile a tal fine. Quel “principio” può aiutare ad avviare una transizione culturale che eviti di ridurre la transizione ecologica (more solito) soltanto ad una transazione economica di basso rango, agevolata più o meno consapevolmente dalla transizione tecnologica.

 



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