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Cosa non funziona nel nuovo Patto di stabilità. La versione di Tria

​Le nuove regole fiscali potrebbero slittare ancora e arrivare persino dopo il voto europeo. Un periodo di tempo utile a migliorare una proposta di riforma lacunosa e priva della necessaria visione. Il Mes aveva delle condizioni inaccettabili per l’Italia, ma ora non esistono più e tanto basterebbe a ratificarlo. Intervista all’ex ministro dell’Economia, Giovanni Tria

Alla fine potrebbe esserci anche il colpo di scena, dietro l’angolo. La riforma del Patto di stabilità rischia di andare per le lunghe: mica settimane, ma mesi, magari fino alla nuova presidenza della Commissione europea, all’indomani delle elezioni di giugno 2024. Ci sono, infatti, serie probabilità che l’Ecofin straordinario di domani non partorisca il nuovo schema di regole fiscali che dovrebbe scongiurare il ritorno dei vecchi vincoli di bilancio. I negoziati (i ministri delle Finanze si vedranno in videoconferenza) ci sono, per carità. Ma il punto di caduta è ancora lontano.

L’Italia continua a puntare i piedi, ribadendo un concetto: la riduzione del debito dev’essere graduale, realistica e sostenibile. Qui il riferimento, molto critico, è a una duplice richiesta tedesca e cioè che i Paesi con un debito superiore al 90% del Pil lo riducano di almeno l’1,5% all’anno, più di quelli con un debito inferiore e che i vincoli di riduzione annua di debito e disavanzo sulla base di obiettivi numerici scattino, di fatto, non appena Paesi come Italia, Francia o Belgio dovessero uscire dalla procedura per deficit eccessivo che potrebbero dover affrontare dall’estate prossima. Attenzione però, perché il rischio di tornare alle vecchie regole c’è, anche se lo stand by durerà altri sei mesi. E questo, dice a Formiche.net l’ex ministro dell’Economia, Giovanni Tria, non deve succedere.

Le distanze sulla riforma del Patto di stabilità sembrano ancora ampie. Tanto è vero che un accordo nelle prossime ore appare remoto. Cosa prevede?

Certamente c’è una distanza ancora ampia, ma c’è un minimo sindacale che l’Italia deve ottenere: e cioè la massima considerazione per gli investimenti, soprattutto quelli legati al Pnrr. Questo deve essere un punto di partenza. Poi c’è il giudizio, più complessivo, sulla proposta di riforma della stessa Commissione.

Sarebbe?

Tale proposta non prevede una visione europea, non c’è l’idea di una distinzione tra spesa corrente e in conto capitale, specialmente quando la seconda è collegata agli stessi obiettivi europei. Ci si limita, ancora una volta, alla mera gestione dei debiti e questo è grave. Rimane solo il controllo dei singoli Paesi, affinché non facciano del male agli altri. Bruxelles, per esempio, può fare nella sua proposta un’analisi di sostenibilità del debito e pubblicarla, il che ci esporrebbe ai mercati. Possiamo immaginare una specie di rating della Commissione sui singoli Paesi e questo non credo sia molto sensato, specialmente per un Paese ad alto debito come il nostro, che vive di fiducia sui mercati.

Uno dei punti su cui insiste l’Italia, per mezzo del ministro Giancarlo Giorgetti, è sganciare il costo del debito, calcolato sugli interessi, dal deficit. Le sembra corretto?

Condivido, nel senso che si tratta di un elemento esogeno alla volontà dei governi. Se aumentano i tassi e il debito costa di più, tutto questo impatta sulla dinamica del debito e bisogna tenerne conto in sede europea. Lo stesso vale per il Pnrr, non lo si può legare al deficit, su questo il governo ha ragione.

Il rischio di tornare alle vecchie regole però esiste. Non sarebbe un qualcosa di anti-storico, visto l’attuale contesto, così diverso da dieci anni fa?

In quelle regole ci sono vincoli quantitativi, come tagliare il debito di un ventesimo all’anno e questo non si può fare. Ma erano vincoli uguali per tutti, con un margine di flessibilità. E non tutti i Paesi l’hanno usata al meglio, inclusa l’Italia.

Parliamo del Mes. Molti Paesi indebitati hanno sottoscritto il Trattato che riforma il Meccanismo. Ma non l’Italia, che indebitata lo è. Come lo spiega?

Naturalmente per ragioni politiche. Nella riforma del Mes c’erano delle condizioni che per l’Italia erano inaccettabili. Ma poi, grazie a un negoziato che ho guidato io (governo Conte I, ndr), simili vincoli furono tolti. Ma i governi successivi non l’hanno ratificato. Motivi per non sottoscriverlo però, non ci sono. Faccio notare che le stesse condizioni che furono eliminate, ora rispuntano nella riforma del Patto, non lo trova surreale?

La Federal Reserve ha anticipato che il prossimo anno taglierà finalmente i tassi. La Bce potrebbe seguirne le orme, sembra una buona notizia, nonostante una certa ambiguità persistente di Francoforte…

La Bce credo che seguirà la Fed. L’Eurotower ha agito per contrastare l’inflazione, ma è anche vincolata a seguire la Banca centrale americana. Bisognerà vedere come vanno i prezzi, ci vorrà tempo, perché c’è un accumulo di inflazione che ancora non si è scaricato sui tassi.

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