Sembrava che una serie di nuovi accordi su acciaio, alluminio e materie prime avrebbero sotterrato definitivamente la questione delle tariffe. Ma gli accordi non sono (ancora) stati raggiunti, e l’entrata in vigore dei dazi è stata rimandata fino a dopo le elezioni Usa del 2024. Ecco perché è questione di prospettiva strategica
Lo stallo rimane la non-soluzione scelta da Unione europea e Stati Uniti. Martedì i due partner hanno deciso di prolungare la loro tregua nella guerra dei dazi sulle importazioni di acciaio e alluminio. Anziché rientrare in vigore a gennaio 2024 e gravare sul commercio transatlantico in un momento delicatissimo per l’unità del fronte occidentale, le tariffe sono state sospese fino ad aprile 2025 – dopo le elezioni statunitensi che potrebbero risolversi nel ritorno di colui che diede l’avvio alla guerra dei dazi, Donald Trump, alla Casa Bianca.
La Commissione europea ha spiegato in un comunicato che la sospensione si tradurrà in un risparmio annuale di circa 1,5 miliardi di euro per gli esportatori di acciaio e alluminio. La proroga, ha aggiunto il commissario al Commercio Valdis Dombrovskis, “fornisce lo spazio necessario per continuare a perseguire l’abolizione completa e permanente dei [dazi] sulle esportazioni dell’Ue, oltre a lavorare per affrontare la sovraccapacità globale e la decarbonizzazione delle industrie dell’acciaio e dell’alluminio”.
L’impegno espresso dalle due parti è continuare a portare avanti questi sforzi nel contesto delle discussioni sul Gsa, l’accordo globale che promette di combinare sostenibilità e de-risking nei settori dell’acciaio e dell’alluminio oltre che di superare definitivamente la questione dei dazi. Ue e Usa avrebbero dovuto finalizzare questa intesa lo scorso ottobre (in occasione del summit tra i presidenti di Commissione e Consiglio europei Ursula von der Leyen e Charles Michel e l’omologo statunitense Joe Biden), ma i negoziati non sono progrediti abbastanza per raggiungere una firma.
La mancanza di progressi è il leitmotif di questi sviluppi, la stessa che ha portato europei e statunitensi a rimandare la riunione del Consiglio commercio e tecnologia (Ttc) da dicembre all’anno venturo. Il dossier della creazione del Gsa – un “club” globale ad adesione volontaria per l’acquisto di acciaio e alluminio prodotti con standard ambientali stringenti, che funzionerebbe al contempo anche come un argine alla dipendenza dalla Cina e dai suoi prodotti più “sporchi” e in sovrapproduzione – interseca anche quello delle materie prime critiche. Anche in quel campo Ue e Usa non riescono a finalizzare un accordo (sulla falsariga di quello tra Usa e Giappone) che consentirebbe agli automaker europei un accesso migliore alle sovvenzioni dell’Inflation Reduction Act.
Si tratta, in ultima analisi, di allineare le politiche di sviluppo sostenibile e protezionismo economico per allargare il fronte comune contro chi non gioca ad armi pari – una questione di unità politica in un mondo in cui i flussi commerciali sono sempre più un’arma geopolitica. Ue e Usa hanno aumentato la convergenza in altri ambiti, come quello altamente strategico dei semiconduttori, mentre Bruxelles sta alzando l’impegno nel contrastare le pratiche non di mercato cinesi in settori come quello delle auto elettriche e, appunto, l’acciaio. Ma anche l’accordo sul Gsa ha già superato la sua deadline iniziale di due anni (l’intesa iniziale risale a ottobre 2021) e la mancanza di progressi rischia di far deragliare il processo.
Questo stallo è frutto di responsabilità condivise, scriveva Noah Barkin (German Marshall Fund) alla vigilia del summit Ue-Usa che non ha portato ai risultati sperati. Guardando al futuro, la cosa si fa “inquietante se si considera che Biden potrebbe essere l’ultimo presidente americano per il quale le relazioni transatlantiche sono una priorità assoluta”. E qui si innesta uno degli elementi che potrebbero rendere ancora più difficile un’intesa: la possibilità che una presidenza Trump 2.0 – possibilità molto concreta stando agli ultimi sondaggi – faccia arenare lo sforzo di consolidamento del fronte occidentale.
Da parte Usa, in fase di stesura dell’Ira, è certamente mancata una certa misura di attenzione nei confronti degli alleati europei, spiegava Barkin nella sua analisi. Da parte europea invece il problema (ormai un classico) è la differenza di vedute delle capitali sul ruolo dell’Ue nel mondo. Questa stessa miopia strategica sta impedendo ai negoziatori europei di accettare certi compromessi oggi in nome di una prosperità dal taglio più strategico, nel solco di un’alleanza quasi esistenziale, un domani. Gli europei hanno ragione a preoccuparsi della possibilità che Trump torni alla Casa Bianca nel 2025, notava l’esperto, “ma non dovrebbero usare il suo spettro come scusa per non fare passi avanti con l’amministrazione Biden. Cosa vuole fare l’Europa con Biden se vince un secondo mandato? Questa è la domanda a cui l’Europa deve rispondere. Il tempo stringe”.