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Vi racconto il futuro dell’università italiana ai tempi dell’IA. Scrive da Empoli (I-Com)

La pandemia ha senz’altro rappresentato un’occasione per innovare, che tuttavia non è stata cavalcata a sufficienza dal sistema universitario. Nella maggioranza dei casi, una volta cessata l’emergenza, si è tornati sostanzialmente ai vecchi tempi, almeno nei corsi di base. Fino a disincentivare o addirittura proibire la frequenza a distanza. Stefano da Empoli, presidente Istituto per la Competitività (I-Com), analizza gli ultimi dati del rapporto sul sistema della formazione superiore e della ricerca realizzato dall’Anvur

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Negli anni Sessanta, l’economista statunitense William J. Baumol introdusse un concetto che ci aiuta tuttora a capire gli impatti dell’innovazione sull’economia (e i mancati riflessi sul Pil). In particolare, notò che i salari nei settori a bassa produttività aumentano allo stesso ritmo di quelli nei settori ad alta produttività, anche se la produttività rimane stagnante. Di conseguenza, si registra un aumento dei costi di produzione a parità di output nei settori meno performanti, nell’analisi di Baumol lo spettacolo dal vivo. Dove c’è infatti un vincolo evidente: una sinfonia di Beethoven o una commedia di Molière hanno la stessa identica durata da sempre e dunque è ovvio che la produttività dell’esecuzione non possa aumentare. Nonostante ciò e introducendo un’evidente eccezione alla regola microeconomica secondo la quale il salario riflette la produttività, i lavoratori dello spettacolo risentono dei trend del mercato del lavoro e vedono dunque in media il proprio salario aumentare grazie al fatto che altri settori sono nel frattempo diventati più produttivi, incrementando il benessere generale e quindi anche la domanda per i propri servizi. Ma la malattia dei costi di Baumol, come divenne presto nota, può applicarsi a qualsiasi altro settore che per i più disparati motivi è caratterizzato da una crescita bassa o addirittura nulla della produttività, come la sanità o l’istruzione. Fino a giungere al paradosso che i settori meno performanti finiscono per incidere di più sul valore del prodotto e dunque per zavorrare l’economia nel suo insieme.

Come scrivo nel libro “L’economia di ChatGPT. Tra false paure e veri rischi”, pubblicato nei mesi scorsi da Egea, “pensiamo a una fabbrica e a un’aula scolastica di cento anni fa e compariamole con quelle di oggi; la prima non sarebbe di fatto più riconoscibile (probabilmente, ne potremmo indovinare a fatica solo le mura esterne, sempre che nel frattempo non sia stata interamente abbattuta o abbandonata), la seconda ci apparirebbe quasi identica (la principale differenza potrebbe essere una lavagna elettronica su un muro che ha sostituito o affiancato quella tradizionale)”. Se da un’aula scolastica ci muoviamo a una universitaria, almeno nel nostro Paese, in media la situazione non cambia. E questa staticità riflette metodi didattici che nella stragrande maggioranza dei casi sono rimasti al secolo scorso (forse nell’università ancora di più che nella scuola).

In questo senso, la pandemia ha senz’altro rappresentato un’occasione per innovare, che tuttavia non è stata cavalcata a sufficienza dal sistema universitario. Nella maggioranza dei casi, una volta cessata l’emergenza, si è tornati sostanzialmente ai vecchi tempi, almeno nei corsi di base. Fino a disincentivare o addirittura proibire la frequenza a distanza, temendo spesso più che una caduta del livello di apprendimento lo svuotamento delle aule, di fronte alla possibilità per lo studente di partecipare alla lezione comodamente dal salotto di casa o addirittura, udite udite, dalla propria camera da letto. E, dato che lo studio è sacrificio, perché mai offrire una soluzione confortevole (e a basso costo, considerati i tanti studenti fuori sede)?

Da questo contesto occorre partire analizzando l’ultimo rapporto sul sistema della formazione superiore e della ricerca realizzato dall’Anvur. Nel quale colpiscono in particolare due dati, accanto a quello drammatico del calo di iscritti delle università meridionali nell’ultimo decennio.

Innanzitutto, la crescita degli iscritti totali (da 1.767 mila nell’anno accademico 2011/12 a 1.949 mila dell’anno accademico 2021/22) è quasi integralmente imputabile alle università telematiche, esplose da 44 mila a 224 mila studenti. E, dato ancora più cruciale, la crescita registrata nello stesso periodo dei diplomi di laurea è per il 62,1% attribuibile sempre agli atenei digitali. Che dunque hanno il merito principale di aver contribuito ad elevare la percentuale di popolazione italiana compresa tra 25 e 34 anni in possesso di un diploma di istruzione superiore. Un parametro che da sempre ci vede inseguire gli altri Paesi Ue e Ocse e che continua purtroppo a zavorrare la competitività del sistema Paese. È vero che dal 2011 al 2021 il tasso di laureati è passato dal 21% al 28,3% ma nello stesso periodo la media Ocse è salita dal 37,9% al 47,1%. I 4 grandi Paesi europei (Francia, Germania, Regno Unito e Spagna), che partivano con largo vantaggio (39,5% nel 2011) hanno continuato a procedere a una velocità di crociera elevata (issandosi al 48,1%). È dunque evidente come questo divario si sarebbe accresciuto sensibilmente senza l’apporto delle università telematiche. Che hanno il principale punto di forza proprio nel segmento più debole dell’istruzione terziaria italiana, dove maggiore è la differenza di performance con la media Ocse e Ue, cioè nei cicli brevi e in particolare nella triennale.

Lo stesso rapporto Anvur sottolinea come, per la coorte 2017/18, l’ultima ad essere censita, i laureati in corso per le università telematiche rappresentavano il 44,8% della platea complessiva contro il 37,8% per quelle tradizionali. Tutto questo a un costo risibile per le finanze pubbliche. Se il fondo di finanziamento ordinario, destinato alle università statali, è aumentato significativamente tra il 2012 e il 2022 (da 7,3 a 8,7 miliardi di euro), nello stesso arco di tempo sono diminuiti i già modesti fondi previsti per le università non statali tradizionali (da 101 a 68 milioni di euro) e per quelle telematiche (da 2,8 a 2 milioni di euro).

Dunque, visto che l’aumento degli iscritti e dei diplomi di laurea si concentra nelle università non statali (e in particolare in quelle telematiche), si potrebbe a buon ragione sostenere che lo sforzo dell’Italia di ridurre il gap con i Paesi più sviluppati stia avvenendo praticamente a costo zero (o meglio negativo, vista la diminuzione dei finanziamenti per i soggetti che più contribuiscono all’obiettivo).

Eppure, le università telematiche non solo non vengono sostenute finanziariamente (scelta legittima) ma sono gravate da una crescente mole di ostacoli che rischiano di rallentarne la corsa. Come lo sarebbe il netto innalzamento del rapporto tra docenti e studenti, che di fatto le uniformi alle università tradizionali. Al di là della discutibilità del criterio, che di per sé non è un indice di qualità (si possono avere a stipendio tantissimi docenti ma se questi si fanno vedere solo per lezioni puramente frontali ed esami si sarà ottenuto solo di appesantire i costi senza benefici per il sistema), è evidente come le università telematiche abbiano modus operandi e platea di riferimento (a partire dal numero elevato di studenti lavoratori) del tutto diverse da quelle tradizionali.

D’altronde, per guarire dalla malattia dei costi di Baumol e provare a sfruttare appieno le opportunità fornite dalle nuove tecnologie, mettere nel mirino le università con maggiore know-how digitale non sembra la migliore strategia. Laddove invece apparirebbe più logico lasciare più autonomia ex ante, consentendo alle università di sperimentare e specializzarsi, intercettando in maniera più completa le esigenze degli studenti che sono tra loro del tutto eterogenee in base a background, preferenze e prospettive future.

Questa è la base dell’innovazione in tutti i campi ma anche di uno Stato liberale e non paternalista. Dove l’asticella qualitativa non viene tenuta in alto da controlli preventivi di natura formale bensì da meccanismi efficaci di valutazione ex post dei risultati. Sempre se vogliamo accettare la sfida di un’università al passo con il resto del mondo e soprattutto con i tempi che stiamo vivendo.


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