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Usa e Ue, conservatorismi a confronto. Quando la politica estera conta

La riflessione di Kori Schake, dello storico think tank conservatore “American Enterprise Institute” apparsa su Foreign Affairs, accende un faro negli Usa e nel Vecchio continente, dove le sfide non si limitano solo a Kyiv o Gaza, ma abbracciano il caso serbo-kosovaro, il fronte mediterraneo legato al nord Africa, i rigurgiti indipendentisti catalani, le spinte di Cina, India e Giappone che interagiscono quotidianamente con l’Europa. A questo, oltre che al resto, dovrà fornire un risposta l’area conservatrice-repubblicana europea

Se è vero, come è vero, che il tradizionale internazionalismo conservatore americano rimane il modo migliore per proteggere la sicurezza nazionale degli Stati Uniti e amministrare l’economia, come ha spiegato Kori Schake dello storico think tank conservatore “American Enterprise Institute”, in che modo potrà traslarsi questa attenzione verso la politica estera nel dibattito europeo ed italiano?

L’occasione è data dallo status quo del Gop, un partito il cui leader Donald Trump da un lato è alle prese con quattro procedimenti penali e, dall’altro, vorrebbe foraggiare un certo isolazionismo a stelle e strisce, con la promessa esplicita di ritirarsi dalla Nato; dove Kevin McCarthy, presidente della Camera, ha dovuto fare un passo indietro dopo appena sei mesi; e dove altri leader conservatori, come il governatore della Florida Ron DeSantis e l’imprenditore Vivek Ramaswamy, sbandierano una palese ostilità verso il sostegno degli impegni internazionali degli Stati Uniti.

Questo ragionamento apparso su Foreign Affairs ha come punto di caduta il fatto che la politica estera dovrebbe essere una priorità urgente, dal momento che “il mondo sta diventando sempre più pericoloso e la politica estera incide direttamente sullo stato dell’economia interna e, quindi, sui mezzi di sussistenza degli americani”. E se agli Usa si sostituisse il contesto Ue quale scenario apparirebbe?

Il conservatorismo europeo sta vivendo una fase sì nuova, data da interpreti diversi dopo il ventennio merkeliano e circostanze del tutto eccezionali (Ucraina e Gaza), ma per certi versi ben ancorata alla sua tradizione atlantista. Lo spartiacque rappresentato dall’appoggio incondizionato all’Ucraina dopo la guerra di aggressione russa ne è limpida dimostrazione. Una vicinanza a Kyiv che i partiti europei repubblicani, conservatori, liberali e popolari non hanno fatto mancare, a differenza delle diverse sensibilità di ultradestra e sovranisti.

Per cui quando Schake in quella lunga analisi mette l’accento sul fatto che gli americani, compresi i conservatori, rimangono quello che sono sempre stati: internazionalisti riluttanti, ma pur sempre internazionalisti (ovvero “non rispondono bene agli appelli astratti sulla preservazione dell’ordine internazionale ma capiscono che se il mondo lascia che sia la Cina a stabilire le regole, le libertà degli Stati Uniti diventeranno meno sicure, le imprese americane saranno svantaggiate e gli alleati degli Stati Uniti rimarranno vulnerabili”) tocca un nervo molto scoperto al di là dell’Atlantico e un po’ meno al di qua. Ma con una grande differenza.

In Italia i conservatori di Giorgia Meloni si sono schierati per l’Ucraina ben prima di vincere le elezioni, nel solco della tradizione pro-Nato tanto del Msi almirantiano che dell’An di matrice finiana. Forza Italia, aderente al Ppe, lo era già. Meno la Lega che si è adeguata, per ora. Ma che è punto di riferimento di un pezzetto di nato-scetticismo, come d’altro canto spiegato a Firenze dagli altri aderenti al gruppo Identità e democrazia.

Il punto è stabilire come, anche in Europa così come in Usa, gli elettori potranno aver bisogno di una visione conservatrice che non assecondi il leaderismo (negli Stati Uniti il trumpismo, o in Francia il lepenismo, o in Ungheria l’orbanismo tout court), né quei sondaggi che suggeriscono un debole sostegno all’internazionalismo. Hanno bisogno, invece, che i conservatori avanzino una teoria su ciò che sta accadendo nel mondo e su come il partito intenda proteggere il Paese e garantire la prosperità dei cittadini.

Nessuna teoria del genere può essere sviluppata senza una chiara politica estera, spiega a ragione Schake, che in questo apre un interessante cono di interesse anche nel Vecchio continente dove le sfide non si limitano solo a Kyiv o Gaza, ma abbracciano il caso serbo-kosovaro, il fronte mediterraneo legato al nord Africa, i rigurgiti indipendentisti catalani (giunti finanche al governo spagnolo), le spinte di nuovi players (Cina, India, Giappone) che interagiscono quotidianamente con l’Europa. A questo, oltre che al resto, dovrà l’area conservatrice-repubblicana fornire un risposta.



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