La Cina resta un partner economico fondamentale per il nostro Paese e per l’Europa ma, assieme all’Ue, bisogna difendersi in settori strategici se si vuole raggiungere gli obiettivi ambiziosi sulla transizione energetica e su quella digitale
Bisogna dire la verità: la scelta del governo italiano di fare uscire il nostro Paese dalla Nuova Via della Seta cinese non ha colto di sorpresa nessuno, tantomeno Pechino. Giorgia Meloni, presidente del Consiglio, aveva preso questa decisione ormai da diverso tempo e c’è da scommettere che l’avesse già comunicata (seppure informalmente) al primo ministro cinese Li Qiang durante il summit G20 di alcuni mesi fa. Si trattava solo di trovare tempi e modi opportuni per notificare ufficialmente alla Cina la nostra volontà di non rinnovare il memorandum d’intesa tra Roma e Pechino che è in scadenza a marzo 2024, cinque anni dopo la firma che era avvenuta durante la visita del leader cinese Xi Jinping nella capitale.
L’adesione dell’Italia alla Belt and Road Initiative fu una scelta decisamente azzardata da parte del governo Conte I: non tanto per i contenuti, dato che il memorandum d’intesa in questione conteneva ben pochi impegni vincolanti (anche se alcuni potenzialmente rischiosi, come l’entrata di capitali cinesi in alcune infrastrutture critiche come il porto di Trieste), quanto per il valore politico di un accordo del genere. L’Italia era (ed è rimasta) l’unico Paese del G7 ad aderire a questa iniziativa dall’altissimo valore strategico, in un momento in cui l’esecutivo di allora aveva adottato una postura volutamente critica nei confronti di alleanze storiche come quella con gli Stati Uniti o della posizione attiva del nostro Paese all’interno dell’Unione europea. I tempi poi sono radicalmente mutati e, complici diversi cambi di governo così come una pandemia originatasi proprio dalla Cina nonché l’aumento delle frizioni geopolitiche ed economiche con il Dragone, l’Italia ha fatto saldamente ritorno alla sua tradizionale vocazione euro-atlantica. La scelta di abbandonare la Belt and Road Initiative è dunque indubbiamente positiva e va certamente incontro alle “gentili” pressioni da parte degli Stati Uniti per uscire da una situazione che avrebbe potuto generare imbarazzi nell’ottica di un decoupling economico tra Cina e Occidente che nei prossimi anni potrebbe diventare sempre più marcato.
Del resto, i vantaggi ottenuti dall’Italia in questi anni di appartenenza alla Belt and Road Initiative sono stati abbastanza limitati. Basti pensare che il deficit commerciale nei confronti di Pechino è passato da 20 a 48 miliardi di euro mentre le esportazioni (che secondo gli annunci trionfali dell’epoca sarebbero dovute aumentare esponenzialmente) hanno visto in realtà una crescita piuttosto esigua. A dire il vero, non si sarebbe potuto sperare in molto di più in un contesto come quello del mercato unico europeo, dove gli Stati membri non sono titolari delle politiche commerciali e devono dunque ottemperare alle regole europee, e dove i Paesi hanno dovuto sviluppare un proprio meccanismo di Golden Power volto a bloccare (o quantomeno rallentare) gli investimenti potenzialmente predatori da parte di Stati terzi in settori strategici per la tutela degli interessi nazionali, come infrastrutture e telecomunicazioni.
Detto questo, non sembra il caso di drammatizzare o di preoccuparsi per il deterioramento dei rapporti bilaterali tra Italia e Cina. L’approccio di quest’ultima è decisamente pragmatico e poco ideologico; inoltre, il gigante asiatico sta vivendo un momento particolarmente delicato a livello economico, con la crescita che dopo il Covid stenta a ripartire come ha evidenziato anche il giudizio di Moody’s sul rating sovrano (rimasto al livello A1 ma con l’outlook abbassato da stabile a negativo). La Cina ha insomma problemi più urgenti da risolvere al proprio interno – leggasi un modello di sviluppo da ripensare, con la popolazione che peraltro sta andando incontro ad un rapido invecchiamento – che lanciarsi in una querelle diplomatica con l’Italia. Al di là delle cornici fornite o meno da un memorandum d’intesa, la Cina resta un partner economico fondamentale per il nostro Paese e per l’Europa, a cui non si potrà rinunciare in un’ottica quantomeno di medio periodo. Al contempo, resterà di cruciale importanza la capacità di difendersi dalla competizione cinese in settori strategici come le tecnologie rinnovabili e i semiconduttori, se Italia e Unione europea vogliono raggiungere gli obiettivi ambiziosi che si sono posti in vista della transizione energetica e di quella digitale.