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Non solo Vietnam o Cina, il Kissinger pensiero (globale) secondo Terzi

Conversazione con l’ambasciatore, già ministro degli Esteri: “Era dotato di una sistematicità e una profondità totali, che lo portavano ad esprimere la capacità di collegare sempre alla strategia militare la dimensione tecnica di una visione. Ha sempre continuato a concedere delle aperture di credito alla Cina, anche se col passare degli anni ha riconosciuto le enormi problematicità”

Henry Kissinger era un uomo che pesava all’interno della politica estera americana, era una persona che non poteva non essere ascoltata, non soltanto nei momenti di crisi ma nell’elaborazione della visione strategica dell’America. Questo il ricordo che l’ambasciatore Giulio Terzi di Sant’Agata, già ministro degli esteri, attualmente senatore di FdI alla guida della commissione affari Ue di Palazzo Madama, affida a Formiche.net nel giorno della scomparsa dell’ex segretario di stato americano, di cui traccia un profilo analitico, spaziando tra Vietnam, Cina e Afghanistan.

Quante volte ha incontrato Henry Kissinger?

L’ho incontrato varie volte, ricordo in particolare due occasioni a casa sua, era molto amico di Mario D’Urso che veniva spesso a New York quando svolgevo il mio incarico per la prima volta. In seguito ci sono tornato da rappresentante permanente e mi è capitato di incontrarlo soprattutto in occasioni di tavole rotonde, anche nel contesto delle Nazioni Unite.

Quale la sensazione che dava?

Di una una vivacità di argomenti e di comunicazione fuori dal comune, non solo nei media televisivi ma di persona, nei dibattiti, negli incontri. Si tratta di una capacità analitica che si ritrova anche nei libri e nei suoi lavori, che sono soprattutto quelli da professore universitario e accademico: l’equilibrio delle potenze in Europa, le relazioni diplomatiche, l’Ottocento, il Congresso di Vienna. Insomma, un uomo di studio e di capacità sistemica che spiegava la storia delle relazioni internazionali e i contenuti del potere: questa è indubbiamente una visione molto moderna applicata alla storia. Una storia che, osservando anche i lavori poderosi frutti di team di ricerca che lui guidava, si caratterizza per ciò che lui imprimeva: una sistematicità e una profondità totali, che lo portavano ad esprimere la capacità di collegare sempre alla strategia militare la dimensione tecnica di una visione.

In quali ambiti maggiormente?

Lo abbiamo visto nei grandi negoziati strategici, preceduti da alcune sue riflessioni scritte. Non importa che fosse al governo repubblicano o un consulente esterno di altri esecutivi, era un consulente di tutti i presidenti e di tutti i segretari di Stato. Ancora Jack Sullivan e Anthony Blinken nelle ultime settimane lo sentivano e lo ascoltavano.

Da ministro degli esteri lei ha avuto come controparte Hilary Clinton. Con Kissinger dietro le quinte?

Sì, ed era noto che, pur essendo repubblicano, Kissinger spaziava da un mondo all’altro e con la Clinton aveva un rapporto costante e si parlavano con una certa frequenza. Così come è avvenuto, e sta avvenendo, anche con l’Amministrazione Biden: in questo denoto la sua grande autorevolezza, in Italia si sarebbe definita bipartisan.

Chi era Kissinger?

Era un uomo che pesava all’interno della politica estera americana, era una persona che non poteva essere non ascoltata, non soltanto nei momenti di crisi ma nell’elaborazione delle visione strategica dell’America.

È stata anche una figura contestata.

Naturalmente: non dico certamente niente di nuovo. La sua matrice anche culturale e addirittura nazionale la si ritrova, come è noto, nel politologo Hans Morgenthau, padre del realismo contemporaneo che attribuiva certamente più spazio ai valori della politica estera pur insistendo molto, nelle sue opere, sul fatto che il realismo fosse un punto di partenza fondamentale: c’è in Morgenthau, a mio parere, una visione “della città sulla collina” della politica estera americana mentre in Kissinger questo lo si vede meno, perché si fa largo il ragionamento della potenza.

Ovvero?

Quello degli equilibri di potenza. Su questo tema ricordo un passaggio molto discusso nella storia dei rapporti atlantici all’interno dell’Alleanza, quasi un’ossessione direi, mi riferisco al nucleare come arma di ultima istanza. Certamente nessuno voleva usarla, ma occorreva trovare un equilibrio. Fino a pochi mesi prima che il trattato INF (Intermediate-Range Nuclear Forces Treaty) venisse concluso, Kissinger era stato molto critico sull’opzione zero.

Per quale ragione?

Predicava attenzione sul fatto che l’opzione zero fosse una cosa sulla quale i sovietici, maestri nel trovare delle parità, in quel caso avrebbero ottenuti degli svantaggi. Fu un momento nel quale l’Italia ebbe un ruolo importantissimo con Spadolini, Cossiga, Craxi e in quel momento lui guardava, oltre che all’aspetto tecnico della strategia nucleare, anche alla capacità dell’Unione Sovietica di mobilitare le opinioni pubbliche occidentali contro l’arma nucleare. Era un uomo quindi che combinava queste due caratteristiche. Ma aggiungo che le sue grandi decisioni devono essere molto contestualizzate.

Si riferisce al Vietnam?

Quando parliamo di Vietnam se non contestualizziamo è inevitabile ragionare sul fatto che quel Paese poi venne perso. L’America ne è uscita convincendo la propria opinione pubblica che fosse un’uscita onorevole, ma dopo due anni si è capito che era soltanto la premessa di un’unificazione del sud sotto un regime comunista. Non voleva dare l’impressione di considerare l’accordo di Kleber come una pace definitiva, ma soltanto un passo per estendere la sovranità del nord a sud, quindi fu criticato a posteriori. Occorre però anche contestualizzare il grande passo fatto da Nixon con la visita in Cina, dove Kissinger è stato un’infinità di volte.

Con quale significato?

Ha sempre continuato a concedere delle aperture di credito alla Cina, anche se col passare degli anni ha riconosciuto le enormi problematicità che Pechino pone sul piano della sicurezza e sul piano dell’economia. Nel suo libro “On Cina” però già prefigurava alcune problematicità, ma non c’è dubbio che lui è stato l’uomo che ha aperto a quel paese molto prima che avvenisse il processo di normalizzazione con la Cina, fatta entrare nel Consiglio di sicurezza come membro permanente. Dal punto di vista del potere strategico complessivo fu un salto enorme per un Paese che era stato condannato all’emarginazione e che invece poi, tramite l’apertura dell’America, ebbe dinanzi a sé un nuovo mondo.

Quali mosse l’hanno sorpresa?

Sono stato veramente molto deluso da come è avvenuto il ritiro americano all’Afghanistan, mentre la popolazione sperava di uscire dalla tragedia della dittatura e della violenza, come quella dei talebani in Afghanistan o, parimenti, dei nord vietnamiti nei confronti dei sud vietnamiti. Sarei stato inorridito anche allora a pensare che non si difendevano più i sud vietnamiti: vuol dire abbandonare degli alleati al loro destino, alleati che non sono capaci di difendersi. Ciò è avvenuto con Kabul ed è avvenuto con Saigon.

Vi erano delle opzioni diverse? Potevano gli americani rimanere ingaggiati in Vietnam o in Afghanistan?

Kissinger è stata una voce che, a mio giudizio, non ha avuto elaborazioni intellettuali sempre lineari perché non è stato sempre comprensibile e ha dato l’impressione di incoerenze evidenti. Ma complessivamente possiamo dire che, alla fine, è stato un grande Segretario di Stato, un grande americano, che ha sostenuto sempre il ruolo dell’Occidente nella sua unità anche se sull’Alleanza atlantica a volte si è espresso in modo non certo positivo. Era una persona capace di argomentare, di convincere in una dimensione di mantenimento di un ruolo molto forte dell’America quale punto di aggregazione di consenso di quelli che chiamiamo i valori occidentali.


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