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Bombardamenti iraniani e gestione dell’escalation. Cento giorni di guerra a Gaza

L’Iran stressa gli equilibri in gioco. Attacco diretto, primo elemento di novità secondo Nicola Pedde (Igs), ma evitando gli obiettivi americani. Teheran colpisce insieme Is e Mossad, secondo le dichiarazioni ufficiali: il regime cerca di mantenere forte la narrazione, ma il rischio incidenti cresce

Il centesimo giorno di guerra a Gaza e di crisi in Medio Oriente porta con sé tutte le criticità della situazione. Le immagini che raccontano la lotta per il cibo nella Striscia in guerra; le voci sulla morte di parecchi degli ostaggi ancora in mano a Hamas (che li aveva rapiti durante l’attentato del 7 ottobre, aprendo le ostilità); i bombardamenti iraniani in Siria e Iraq.

Il doppio attacco dell’Irgc (acronimo inglese del Corpo dei Guardiani della Rivoluzione Iraniana) è stato l’elemento più nuovo di una giornata che ha dimostrato come tutti Paesi della regione centrale del mondo sono coinvolti nel subire gli effetti della guerra in corso. Attorno alle 11:30 ora locale, c’è stato lo scossone che ha fatto pensare a un’escalation sostanziale. Teheran ha colpito con sei missili basitici a medio-corto raggio Fateh 110 (e con alcuni droni one-way) dei bersagli nel Kurdistan iracheno e in Siria.

Il bombardamento iraniano

Le prime informazioni diffuse dal campo (spesso imprecise, fuorviate e frutto di una percezione alterata all’emotività del momento) parlavano di un attacco al consolato americano a Erbil, capitale del Kurdistan, e dunque si era temuta una rivendicazione di un attacco diretto iraniano contro un obiettivo istituzionale statunitense. Successivamente, anche tramite le dichiarazioni diffuse da Teheran, si è compreso che l’azione dell’Irgc era all’interno del perimetro del controllo dell’escalation – sebbene delicata e rischiosa.

Le forze teocratiche iraniane rivendicano di aver colpito un centro di comando del Mossad, l’intelligence esterna israeliana, che si trovava nel Kurdistan. È una dichiarazione che probabilmente non troverà mai conferme: non è noto se il Mossad abbia delle postazioni nel territorio autonomo iracheno, e tanto più difficilmente Israele ammetterà che sono state colpite, visto che le attività dei servizi è solitamente coperta da segreto.

Teheran dice di aver colpito anche una base dell’Is in Siria, collegandola al grande attacco subito a Kerman il 3 gennaio. Come spiegava Riccardo Alcaro (Iai), gli iraniani hanno interessi a tenere alta la tensione regionale, anche ad alzarla se serve, ma intendono evitare l’escalation nella reazione. Reazione che però doveva esserci, pena perdere appeal nella già ammaccata narrazione. È qui la ragione dell’azione iraniana.

Da una parte manda un messaggio punitivo contro il gruppo baghdadista che ha compiuto l’attentato un paio di settimane fa, dall’altra punisce gli israeliani per la guerra a Gaza e soprattutto per le campagne di eliminazione contro i vertici dell’Asse della Resistenza – l’insieme di milizie sciite collegate all’Irgc che Israele sta bombardando in Libano, Siria e Iraq (anche poche ore prima dell’attacco iraniano). In uno dei tre comunicati emessi per spiegare le operazioni, gli iraniani scrivono che continueranno “finché ogni goccia del sangue dei martiri versato non sarà vendicata”.

E poi, si parla del “centro per lo sviluppo di operazioni di spionaggio e la pianificazione di azioni terroristiche nella regione e soprattutto nel nostro amato Paese”. Ossia, colpendo insieme i due obiettivi c’è anche spazio per continuare un’altra narrazione: la sovrapposizione tra intelligence nemiche e gruppi jihadisti nemici, storia che il regime ha messo in pasto ai propri cittadini spaventati subito dopo l’attentato di Kerman.

Di più: colpendo nei pressi del consolato americano, e all’aeroporto di Erbil usato anche dagli americani per la logistica del coordinamento delle operazioni anti-terrorismo ancora in corso sul Siraq, Teheran manda un segnale di capacità operativa nella regione. E anche questo è importante per fanatici e proseliti della Repubblica islamica – collettività che devono essere sfamate, rassicurate, infervorate se serve.

“L’Iran vuole dimostrare di mantener fede alla promessa di vendicare l’attentato di Kerman e l’uccisione di Razi Mousavi generale di alto profilo dell’Irgc colpito in Siria, per i quali ha accusato l’Is e Israele”, spiega Nicola Pedde, direttore dell’Institute for Global Studies. “In tal modo ha affermato di aver colpito lo Stato Islamico nel nord della Siria quanto un non meglio precisato centro del Mossad ad Erbil. Nel nord dell’Iraq, dalle prime informazioni, sembrerebbe essere stata colpita l’abitazione di un imprenditore che l’Iran ritiene vicino agli israeliani e agli americani, così come alcune delle infrastrutture realizzate da questi”.

Per Pedde, “il principale elemento di novità di quest’azione è rappresentato dalla conduzione diretta degli attacchi da parte degli iraniani, e non per il tramite di forze locali che avrebbero garantito la capacità di negare una responsabilità diretta. Il secondo elemento di interesse, invece, è che, almeno allo stato attuale delle informazioni, sembrerebbero essere stati volutamente evitati attacchi diretti contro obiettivi americani, sebbene alcuni di questi abbiano interessato le immediate vicinanze di alcune infrastrutture statunitensi, come il nuovo consolato”.

Controllare l’escalation: fin quando?

Se è vero che questa azione iraniana ha anche un significato a carattere interno – sebbene si esplichi all’esterno – come molte delle azioni che compiono i regimi, è altrettanto evidente che però gli effetti potrebbero avere conseguenze di tipo regionale. E dunque, Teheran, Washington, Gerusalemme, riusciranno a mantenere il livello dello scontro all’interno di quel controllo dell’escalation che si è visto finora?

Il rischio è che mentre l’Iran tenta di complicare il sostegno degli Stati Uniti a Israele, vada a collidere creando i presupposti per uno scontro diretto – che probabilmente né Washington né Teheran vogliono. Questo rischio si collega anche al supporto iraniano nei confronti dell’Asse della Resistenza: gli attori che lo compongono – tra questi Hezbollah, Hamas, Ansar Allah – hanno tutti agende personali, priorità, interessi, sebbene siano stati pensati come vettore di influenza iraniana (e coordinate dall’Irgc).

Finora si sono caratterizzate per azioni a plausible deniability contro gli interessi americani, di solito a intensità controllata (medio-bassa e per lo più simboliche), che è un punto di contatto tra le agende dirette e le ragioni della loro ideazione da parte dell’Irgc. L’attacco di Hamas del 7 ottobre ha cambiato gli equilibri però, e le evoluzioni nella destabilizzazione delle rotte indo-mediterranee dimostrano come quelle forze sono un problema non regionale, ma internazionale (Ansar Allah dallo Yemen sta mettendo in crisi equilibri geoeconomici globali).

Gli Stati Uniti accusano della situazione l’Iran, che ha fornito armi e sostegno di vario genere a quei gruppi per anni. L’Iran non può sganciarsi, deve continuare a sostenerli (sempre per ragioni collegate alla narrazione della Repubblica islamica e dell’internazionalismo sciita, che hanno valore esistenziali per la teocrazia). Fin quando è possibile? Fin quando l’Iran potrà essere tenuto estraneo alle reazioni americane come quelle contro gli Houthi?

Anche perché, se finora Teheran ha accettato l’invito di Washington a mantenere la guerra confinata alla Striscia di Gaza, da qualche settimana pare che abbia aumentato il supporto ai suoi alleati. Secondo le intelligence americane hanno dato aiuto nella designazione degli obiettivi colpiti dai missili terra-mare della yemenita Ansar Allah (che nella serata di ieri ha messo nel mirino un cargo di proprietà americana nel Golfo di Aden nel 29esimo attacco dal 19 novembre a oggi), stanno rifornendo Hezbollah delle armi con cui dal 7 ottobre ha tenuto altissima la tensione al confine libanese, fomentano (e in parte coordinano) le milizie irachene e siriane che poi attaccano le basi statunitensi.

Aumentando la possibilità di un coinvolgimento militare diretto tra Stati Uniti e Iran, quest’ultimo ha condotto anche attacchi diretti a dicembre e gennaio utilizzando le proprie forze, minacciando il commercio globale. Queste azioni (come quella contro la nave Chem Pluto nell’Oceano Indiano o il sequestro della petroliera Suez Rajan all’imbocco del Golfo Persico), se proseguite e intensificate, potrebbero spingere militari e politici statunitensi a sostenere che le manovre dell’Iran compromettono la libertà di navigazione regionale, giustificando una risposta armata. È un anno elettorale negli Usa, e questo potrebbe essere sia positivo (perché l’amministrazione Biden non intende entrare in guerra adesso, come invece Donald Trump ripete nei suoi comizi), ma anche negativo (perché una reazione potrebbe essere dovuta per non sembrare deboli).

Il punto è che ogni genere di risposta americana alle provocazioni iraniane potrebbe produrre un’ulteriore reazione su scala internazionale. La diffusione delle milizie in tutta la regione è profonda, gli interessi sul tavolo sono molti e non ultimo un equilibrio da gestire con i grandi Paesi del Golfo: alleati americani come Arabia Saudita ed Emirati Arabi, nonché il Qatar, hanno infatti ristabilito rapporti con la Repubblica islamica e non intendono subire alterazioni su questi frutto di uno scontro con Washington-Teheran. Il coinvolgimento di attori globali come la Cina e la Russia, allineati con l’Iran in funzione anti-occidentale, o l’Unione Europea è in questo momento molto complicato perché mancano leve diplomatiche per dialogare con Teheran – che vede il momento come favorevole nello stressare l’influenza regionale e soprattutto il consenso interno.


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