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CO2, tassare per competere. La svolta europea e l’impatto sul mondo

Chi esporta verso l’Unione europea ha appena iniziato a comunicare le emissioni dietro ai propri prodotti. È un passo cruciale per l’avvio della tassa Ue di adeguamento del carbonio alla frontiera. Il suo arrivo ha fatto irrigidire partner e rivali, ma sta anche iniziando a cambiare le carte in tavola e avvicinare la prospettiva di un mercato globale delle emissioni

Gennaio 2024 è un mese particolare per chi esporta certe classi di prodotti cruciali in Unione europea: per la prima volta nella storia dovranno comunicare alle autorità doganali in Ue le proprie emissioni di CO2, pena una lieve multa. È un passo in un progetto unico nel suo genere, il meccanismo di adeguamento del carbonio alla frontiera (carbon border adjustment mechanism, o Cbam), in auge – almeno in periodo di prova – dallo scorso ottobre e pienamente in vigore dal 2026 in poi. E la sua adozione progressiva ha già scatenato il panico in luoghi come la Cina.

Si tratta, secondo la visione dei legislatori europei che lo hanno varato nel 2021, di una componente essenziale del Green Deal Ue e della naturale evoluzione del sistema Ets di tassazione delle emissioni. Già oggi determinate industrie – tra cui generazione di elettricità, siderurgia, aviazione e trasporto marittimo – devono comprare un certificato di emissione, oggi scambiato sul mercato per circa 80 euro, per ogni tonnellata di CO2 emessa. Negli anni a venire i settori interessati cresceranno per includere il riscaldamento, il trasporto su strada e una serie di piccole industrie.

Il tutto è studiato per favorire la decarbonizzazione e sostenere la transizione, specie quella delle fasce più esposte, redistribuendo i proventi del sistema Ets. Ma il rischio evidente è quello del dumping ambientale (o carbon leakage), essendo che chi esporta in Ue non è soggetto al sistema Ets e può mandare fuori mercato i produttori europei vendendo sottocosto beni prodotti con standard ambientali più laschi. Da qui la necessità del Cbam, che basandosi sui dati forniti alle dogane pareggerà il campo di gioco facendo pagare agli esportatori terzi la differenza in termini di emissioni e allargandosi a coprire più settori in parallelo al sistema Ets.

Oltre a proteggere il mercato europeo, tutto questo dovrebbe incoraggiare i suddetti Paesi terzi ad adottare un proprio mercato del carbonio e misurarlo con l’Ets. La carota è l’accesso al mercato più grande al mondo, quello europeo, e l’esenzione o l’applicazione ridotta della tassa Cbam se nel mercato-fonte è in vigore un mercato del carbonio comparabile. Il bastone, naturalmente, è il dazio in assenza di equivalenza. E il lento ma inesorabile avvio del sistema ha già fatto irrigidire rivali, partner e persino alleati, che vedono nel sistema Cbam una tassa fin troppo verde e quasi paternalistica nel suo approccio alla questione climatica.

A livello globale solo un quarto delle emissioni è coperto da un sistema comparabile di tassazione delle emissioni, anche se la cifra sta salendo, e sui mercati che già esistono il prezzo di un certificato di emissione è molto inferiore  quello europeo; in Cina, per esempio, si attesta su sette-otto euro a tonnellata, un decimo di quello europeo. Il Cbam è diventato anche un elemento nella contrattazione tra Bruxelles e Washington (che non dispone di un mercato delle emissioni ma sta valutando se adottarlo, come anche Tokyo e Camberra) su come far convergere i propri approcci nei campi della tassazione di acciaio e alluminio e degli accordi commerciali su materie prime, auto elettriche e relativi sussidi.

L’avvio del Cbam trova un negoziato Ue-Usa paralizzato da questo punto di vista. Da una parte gli europei vorrebbero accedere ai sussidi dell’Inflation Reduction Act e lavorare di concerto con i partner statunitensi per costruire supply chain meno esposte alla Cina. Desiderio condiviso da questi ultimi, che però vorrebbero più decisione da parte europea nel contrastare le pratiche non di mercato cinesi – specie nel campo dei prodotti e delle tecnologie legate alla doppia transizione. Bruxelles ha iniziato a lavorare in tal senso, aprendo indagini sulle esportazioni di Pechino (e attirandosi la sua ira), ma la costruzione di un fronte politico-ambientale comune è un sentiero in salita.

Tuttavia, è proprio dalle parti della Cina – veterana dell’oversupply, che basa la propria crescita sulle esportazioni sottocosto – che il sistema Cbam semina più terrore. E nonostante la minaccia di proteste in seno all’Organizzazione mondiale del commercio, sembra che il sistema europeo stia già sortendo effetto. Racconta il Financial Times che a novembre quattrocento leader dell’industria siderurgica cinese, la maggiore al mondo per volumi di esportazioni, si sono riuniti a Jiaxing per studiare l’abbandono degli altiforni a carbone. Uno sforzo monumentale, anche considerando la reticenza di Pechino nell’allinearsi agli obiettivi di decarbonizzazione occidentali.

Forse potrebbe essere il regime Cbam e i suoi paralleli in giro per il mondo a incidere sulla posizione dominante della Cina nel settore dell’acciaio, prima ancora del futuro fronte Ue-Usa – che potrebbe finire per non realizzarsi nel caso di una seconda presidenza isolazionista statunitense, targata Trump. Lo stesso vale per il mercato del carbonio Usa, ma la diffusione di questo meccanismo è tale che se ne è parlato persino alla prima Conferenza africana sul clima lo scorso settembre.

Del resto, lo stesso Cbam rappresenta una tendenza più ampia verso la determinazione del prezzo del carbonio come mezzo per ridurre le emissioni a livello globale. Ammesso e non concesso che il prezzo salato del sistema Ets non si riveli troppo alto per le nazioni emergenti, che perderanno l’accesso al mercato europeo, il quale attirerà prodotti più verdi e più cari, di modo che quelli più economici ma “sporchi” saranno scambiati tra Paesi più poveri, che saranno dunque meno incentivati a decarbonizzare. Il rischio, insomma, è di una transizione verde a due velocità. E il mondo guarda molto attentamente le mosse dell’Ue.

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