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Effetto Bruxelles? L’Ue testa la tassa sulle emissioni importate

Cbam

È partita la prima fase del Cbam, il meccanismo di adeguamento delle emissioni importate, con cui l’Unione intende proteggere il mercato interno dai prodotti esteri meno green. Il resto del mondo non è convinto, tra Paesi che chiedono un ripensamento e altri che si attrezzano per reagire. Ma esiste la possibilità di una soluzione ripensata

Domenica 1 ottobre è stato un momento spartiacque per le politiche climatiche globali, per quanto il passaggio (ampiamente preannunciato) sia avvenuto in sordina. La data ha segnato l’entrata in vigore della prima fase del Cbam, acronimo di Carbon border adjustment mechanism, o meccanismo di adeguamento delle emissioni importate dell’Unione europea. Si tratta di uno strumento pionieristico, l’unico nel suo genere, che promette di proteggere i produttori europei dal dumping climatico tassando le importazioni più “sporche” – ma ha già fatto irrigidire tutti i maggiori partner commerciali europei.

Il funzionamento del Cbam è locale, ma le sue ripercussioni sono globali. Il meccanismo è pensato per garantire che i prodotti fabbricati nel Vecchio continente e soggetti al sistema di scambio di quote di emissione Ets (che fissa un prezzo per le emissioni di CO2 o equivalenti) siano in grado di resistere alla concorrenza dei prodotti fabbricati in Paesi in cui inquinare costa meno, o non costa proprio. “Il Cbam incoraggerà l’industria mondiale ad adottare tecnologie più ecologiche [e impedirà] la cosiddetta rilocalizzazione delle emissioni di CO2, ovvero la delocalizzazione della produzione al di fuori dei nostri confini verso Paesi con standard ambientali inferiori”, ha dichiarato il commissario europeo per l’economia Paolo Gentiloni.

A partire da adesso i partner commerciali che esportano verso l’Ue dovranno annunciare le emissioni di gas serra legate alle loro esportazioni di ferro, acciaio, cemento, alluminio, fertilizzanti, idrogeno ed elettricità. In questa prima fase di prova le aziende dovranno solo segnalare le emissioni, pena una multa in caso di inadempienza, mentre i pagamenti veri e propri entreranno in vigore nel 2026. L’obiettivo dell’Ue è duplice: preservare il mercato interno mentre le aziende decarbonizzano ed esercitare influenza sui Paesi terzi affinché anch’essi inizino a fissare un prezzo per le loro emissioni.

È proprio questo ultimo aspetto a essere andato di traverso a praticamente tutti i partner commerciali dell’Ue, che vorrebbero perseguire il processo di transizione secondo ritmi e modalità proprie anziché adeguarsi a quelle di Bruxelles. Brasile, Sudafrica e India hanno accusato l’Ue di implementare misure discriminatorie, mentre la Cina ha fatto ricorso all’Organizzazione mondiale del commercio chiedendogli di valutare se il meccanismo è legittimo. Corea del Sud e Australia hanno espresso forti perplessità, come anche gli Stati Uniti, che come altri Paesi non dispongono di un meccanismo di tassazione delle emissioni (né hanno in mente di crearlo a breve). A livello globale solo un quarto delle emissioni è coperto da un sistema di tassazione delle emissioni, anche se la cifra sta salendo.

Bruxelles e Washington stanno già dibattendo su come far convergere i loro due approcci nei campi della tassazione dell’acciaio e degli accordi commerciali sulle materie prime. Nel mentre, gli Usa chiedono un’esenzione dalle tariffe del Cbam. Altri player sono anche più aggressivi, come l’India, con l’annuncio di una tassa sulle emissioni che prende particolarmente di mira i prodotti europei. L’Ucraina, in virtù della guerra di aggressione russa, è stata esentata ma rimane preoccupata. E non è ancora chiaro come la misura impatterà i Paesi del Sud Globale, che vedono nel Cbam un ostacolo alle esportazioni con cui alimentano il proprio sviluppo.

La risposta europea a queste perplessità dovrebbe passare da investimenti all’estero per favorire la decarbonizzazione e protezione delle industrie interne utilizzando i proventi del sistema Ets. Ma non mancano dubbi anche sul fronte interno. Politico riporta che i produttori e le associazioni commerciali europee sono nervosi per il rischio di perdere quote di mercato in caso di ritorsioni da parte di Paesi come Cina e India. Altri temono che la tassa possa essere troppo facile da aggirare se le sanzioni e il monitoraggio dovessero rivelarsi troppo deboli. E gli importatori europei si aspettano un contraccolpo a causa dell’aumento dei costi e dell’impennata della burocrazia.

Tuttavia, la legislazione Ue non è scolpita nella pietra: il rallentamento della spinta green e l’attenzione alle imprese in vista delle elezioni del 2024 indicano che c’è ampio margine politico per un ripensamento, e la necessità di ricostruire le supply chain nel solco del de-risking (come stanno già facendo Usa e diversi Paesi europei) potrebbero portare a un aggiustamento della tassa sulle emissioni europea. Il campo da guardare è quello dei negoziati transatlantici per stabilire un fronte comune sull’acciaio e tassare chi inonda i mercati di prodotti a prezzi contenuti ma ad alto impatto ambientale, come la Cina. Da lì potrebbe emergere (anche prima di fine anno) un modello di cooperazione basato sulla convergenza dei sistemi.

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