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Perché è ancora presto per tagliare i tassi. Parla Lorenzo Codogno

Intervista all’economista della London School of Economics, già dirigente del Tesoro, nel giorno in cui la Bce ha deciso di lasciare il costo del denaro invariato, rimandando eventuali ripensamenti ai prossimi mesi. Prematuro parlare di inversione della politica monetaria, la crisi nel Mar Rosso è ancora tutta da decifrare e i salari stanno risalendo. Tutto questo potrebbe sparigliare le carte e spingere le banche centrali a prendere altro tempo. Le privatizzazioni? Vale la pena tentare

A Davos Giancarlo Giorgetti  era stato chiaro: prima si cominciano a tagliare i tassi, meglio è, nella consapevolezza che un Paese che emette debito per 450 miliardi all’anno per sostenere la propria spesa pubblica, ha bisogno di una politica monetaria più accomodante. Scenario che anche i mercati si aspettano: non meno di quattro o cinque sforbiciate al costo del denaro, inchiodato al 4,50% dallo scorso settembre, dopo dieci rialzi consecutivi per mano della Bce. E poi, il prezzo dei mutui ha cominciato piano piano a ripiegare, segno che qualcosa si muove. Ma per un vero taglio è ancora presto, spiega Lorenzo Codogno, economista presso la London School of Economics e già capo economista del Tesoro. E come ha confermato Christine Lagarde al termine del board della Bce.

Per molti osservatori una prima retromarcia sui tassi è all’orizzonte, forse già per la prossima estate. Gli stessi mercati scommettono su un cambio di rotta. Lei che ne pensa?

Per me questo retromarcia che lei indica non è affatto certa. A mio avviso la Bce resterà molto cauta per almeno tre motivi.

Quali?

Il primo è che la crescita salariale nell’area dell’euro è prevista in aumento nel 2024 rispetto al 2023. Se a questo si aggiunge che la produttività è in netto calo da molti trimestri, come risultato vi sarà un aumento dei costi medi unitari del lavoro. Le imprese hanno fatto molti utili nel 2023 e questo potrebbe favorire l’assorbimento di questi costi aggiuntivi nei loro margini. Ma sicuramente, almeno in parte, l’aumento dei costi si traferirà ai consumatori tenendo quindi l’inflazione alta. Secondariamente le tensioni nel Canale di Suez si rifletteranno in un aumento dei costi per le imprese con i soliti ritardi, ed anche questo sarà un fattore che terrà l’inflazione elevata.

Già due buoni motivi per spegnere gli entusiasmi. Anche perché la Bce ha appena deciso di lasciare i tassi ancora fermi. E il terzo motivo?

La recente diminuzione dell’inflazione è stata per lo più un effetto di base atteso (almeno da me), ma i dati al netto della stagionalità e le componenti più significative per l’inflazione di fondo sono scese in modo soltanto graduale. Vi è il rischio concreto che l’inflazione riparta nel primo trimestre di quest’anno. Quindi penso sia ancora molto prematuro per la Bce cambiare intonazione, e penso che le attese dei mercati finanziari saranno nuovamente deluse.

Lei ha citato la crisi nel Mar Rosso. Quando si parla di politica monetaria non bisogna mai dimenticare che viviamo in un mondo globalizzato e interconnesso. Quanto sta accadendo in quello specchio di mare preoccupa molti economisti, mentre altri rimangono cauti. Crede possibile immaginare un impatto emotivo sulle banche centrali, tanto da spingerle a rivedere le proprie intenzioni sui tassi?

I conflitti aperti non lontano dall’area dell’euro rischiano di far aumentare l’incertezza con effetti negativi per la crescita economica ma anche con possibili tensioni sui prezzi. Come ho appena spiegato, questo è sicuramente un motivo che spinge verso una maggiore cautela da parte delle banche centrali, ma non è il solo. La banca centrale non potrà che rispondere posticipando l’allentamento monetario e riducendo i tassi solo quando sarà convinta che la riduzione dell’inflazione sarà duratura e sostenibile.

A fine anno l’Europa ha trovato finalmente un accordo politico sul nuovo Patto di stabilità. Il quale porta in dote una traiettoria del debito in discesa nei prossimi anni. L’Italia ha più da guadagnarci o da perderci a conti fatti?

Non è questione di guadagni o di perdite. Senza l’attuale ombrello di protezione europeo con Ngeu e il Tpi (Transmission Protection Mechanism, lo scudo anti spread, ndr), un debito così elevato come quello italiano porterebbe a forti rischi sui mercati finanziari. E quindi c’è solo da sperare che la credibilità della nuova cornice fiscale europea aiuti l’Italia a ridurre il suo debito in modo graduale ma anche sostenibile, comprimendo i tal modo anche i relativi rischi. Penso sia un obiettivo che anche le autorità italiane debbano darsi, indipendentemente dalle nuove regole europee.

L’Ocse nei giorni scorsi ha suggerito al governo italiano lo spostamento delle tasse dal lavoro alla casa. Non le pare una forzatura? O forse è sano realismo?

No, questo è semplicemente il consiglio che viene dato da molti anni. Emerge da un corpo significativo di ricerca accademica e di esperienza sul campo di molti Paesi. Ridurre la tassazione sul lavoro e parallelamente aumentare quella sul capitale immobiliare improduttivo è la ricetta classica per favorire la crescita economica e l’investimento nel lavoro.

Il governo ha rilanciato pochi giorni fa le privatizzazioni da 20 miliardi. Il mercato, per ora, si veda Mps, sembra essere premiante. Ma davvero è possibile ridurre il debito a suon di cessioni? O piuttosto è solo un segnale di buona volontà per i mercati stessi?

Il governo avrà un problema serio. I vari bonus e superbonus edilizi, che ormai ammontano a quasi 150 miliardi, appesantiranno notevolmente il fabbisogno finanziario nei prossimi 2-3 anni e quindi spingeranno verso l’alto il debito pubblico. La risposta dev’essere ovviamente quella di fare le riforme e gli investimenti per aumentare la crescita potenziale del Paese, riducendo in tal modo il rapporto debito/Pil.

Fin qui non fa una piega…

Ma potrebbe non bastare. E quindi il tentativo, sia pur non decisivo, di dare un contributo alla riduzione del debito pubblico con le privatizzazioni è certamente benvenuto, anche se molto sfidante. La vera partita non solo per ridurre il debito ma anche per aumentare l’efficienza dei servizi, è quella di diminuire il peso dello stato e delle amministrazioni locali nelle partecipate a livello locale. In sostanza, uno Stato che fa solo il suo mestiere, regolando in modo adeguato ma gestendo sempre meno in prima persona, è la vera sfida vincente delle privatizzazioni nel medio e lungo periodo.



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