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Cosa penso del nuovo patto di (in)stabilità controllata. L’analisi di Zecchini

Il momento è propizio per parlar chiaro agli italiani e spiegare che il Paese non può più permettersi continui disavanzi, specialmente per spese poco feconde nell’innalzare il potenziale di crescita economica. E che è inevitabile ridurre l’incidenza del debito per non essere alla mercé dei mercati finanziari

Nei giorni scorsi a Bruxelles il Consiglio dei ministri finanziari dell’Eurozona ha raggiunto un accordo sulla riforma del Patto di stabilità e crescita, che ora passa al vaglio del Parlamento europeo per l’approvazione finale. L’Italia ha dato a malincuore il suo assenso, sostanzialmente perché era ormai chiaro che ben difficilmente avrebbe potuto ottenere regole più confacenti ai suoi problemi di bilancio mediante l’opposizione al nuovo Patto.

Come era da attendersi, sono scoppiate immediatamente accese polemiche tra le forze politiche, tra gli esperti e nell’opinione pubblica, quasi tutte incentrate sulla convinzione che si pongono vincoli dannosi allo sviluppo economico del Paese e che ne conseguirà nei prossimi anni un gravoso periodo di austerità economica, altrimenti evitabile creando una nuova governance dell’Unione Monetaria. Nel dibattito prevale una visione impostata esclusivamente sull’interesse nazionale, con l’aggiunta, soltanto in alcuni commenti, del richiamo a un futuro utopistico, almeno in questo momento storico, dell’Ue come di uno stato federale.

Un’analisi più asettica ed ancorata all’attuale realtà economica e politica dell’area dovrebbe indurre a rivedere molte critiche e rivalutare i progressi compiuti con il nuovo accordo, pur riconoscendo le sue carenze nel governarne le conseguenze economiche. Storicamente l’integrazione europea è avanzata a piccoli passi, con salti in avanti solo in momenti di grave crisi in cui lo spirito di solidarietà tra Stati è prevalso perché unica strada per risolvere efficacemente problemi di portata sovranazionale.

Sono seguiti negli anni aggiustamenti delle regole sulla base dell’esperienza, prima di giungere a creare nuovi assetti coerenti con una maggiore integrazione nell’interesse comune. Il nuovo Patto si inserisce in questo processo senza arrivare a un gran salto verso un’integrazione delle politiche di bilancio nazionali che facesse da complemento e bilanciamento all’unificazione delle politiche monetarie. Nondimeno, rappresenta un avanzamento con cui si può costruire una base meno instabile per sostenere lo sviluppo degli investimenti, dell’innovazione e della competitività che sono i pilastri per accrescere il benessere della società.

L’errore di molti commentatori è di non distinguere nel ruolo delle nuove regole l’esigenza di assicurare stabilità al sistema monetario da quella di consentire al Paese di perseguire la crescita, che per loro significa in fondo continuare con i disavanzi del passato, che in realtà hanno condotto agli squilibri attuali e poco sviluppo. Sul piano della stabilità del sistema i quesiti da porsi vertono sul se il nuovo Patto contribuisce o no a ridurre realisticamente gli squilibri che minano la sostenibilità dell’Ume.

La premessa è che le regole quantitative, sospese a causa della pandemia e della conseguente recessione, sono in gran parte superate sia perché fondate su premesse storiche di crescita, inflazione e produttività non più realistiche, sia a seguito del notevole gonfiamento dei disavanzi di bilancio e del debito pubblico reso necessario dalla necessità di contrastare l’ultima grave recessione. Va anche ricordato che nei 25 anni dalla nascita dell’euro si sono verificati ripetuti scostamenti dagli obiettivi di finanza pubblica da parte di molti Stati, inclusi i più grandi, scostamenti ingranditi già nel periodo della crisi finanziaria globale del 2008-2009.

Premesso che un adeguato coordinamento delle politiche nazionali di disavanzo e debito è necessario per la stabilità del sistema, le nuove regole tendono ad agevolare il percorso di aggiustamento degli squilibri prolungando i tempi entro un orizzonte predeterminato (7anni al massimo) e adattandolo alle esigenze degli Stati. Le nuove regole non cambiano gli obiettivi di deficit e debito (rispettivamente, 3% di deficit/PIL e 60% debito/Pil), ma permettono un avvicinamento graduale sulla base di un programma di quattro anni, estensibili a sette in contropartita di riforme e piani di investimento che contribuiscano al potenziale di crescita.

Per responsabilizzare gli Stati ad attenersi ai programmi, questi sono predisposti dagli Stati stessi e verificati con la Commissione sulla base di un esame di sostenibilità del debito. La meta è far sì che alla fine del periodo di aggiustamento il debito sia incardinato su una traiettoria discendente rispetto all’andamento del reddito. Per assicurare la stabilità del sistema, si introducono alcuni vincoli quantitativi. Il rientro da un disavanzo superiore al 3% del Pil è vincolato ad almeno 0,5% Pil all’anno. Margini aggiuntivi di flessibilità sono, tuttavia, accordati fino al 2027 attraverso l’esenzione dal calcolo dei disavanzi dell’incremento della spesa per interessi dovuto alla politica disinflazionistica della BCE e dell’aumento degli investimenti per la digitalizzazione, la transizione verde e la difesa.

Per i paesi con un debito/Pil oltre il 90%, il limite annuale del 3% sul deficit/Pil è reso più stringente in quanto viene abbassato all’1,5%, benché fino al 2027 sia permesso un aggiustamento graduale verso questo obiettivo, ossia nella misura mediamente dello 0,25% all’anno per i programmi di 7 anni. Analogamente, per gli stessi paesi, la riduzione annuale dell’incidenza del debito scende all’1% dall’attuale 1/20, ovvero 5%, e si applica dopo che il deficit è rientrato entro il 3% del Pil. Per gli altri paesi la riduzione è più contenuta.

Qualsiasi limite quantitativo è esposto a critiche in un senso o nell’altro in un percorso di riequilibrio finanziario, che presenta gradi difficoltà differenti tra i paesi. Non si può, tuttavia, disconoscere che con queste modifiche si è cercato di bilanciare l’esigenza di garantire la stabilità del sistema con la gradualità degli aggiustamenti che ogni paese è in grado di attuare. Gli aggiustamenti più rigorosi e rapidi si rivelano in realtà i più effimeri perché non sono sostenibili nel tempo né sul piano economico, né su quello sociale e politico. La flessibilità introdotta e la responsabilizzazione dei paesi nell’esecuzione dei loro programmi dovrebbero fornire più chiarezza a tutti i soggetti e ai mercati finanziari sugli impegni presi e sull’orientamento delle politiche per il prossimo quadriennio. Della maggior fiducia dovrebbe beneficiare il finanziamento degli investimenti e dei bilanci pubblici, e di riflesso la possibilità di introdurre riforme strutturali.

Ma nel nuovo assetto restano alcune debolezze del vecchio. La più grande sta nel rischio che un generalizzato orientamento restrittivo della finanza pubblica in tutti i membri nello stesso periodo, in concomitanza con una politica monetaria ugualmente restrittiva, porti a una prolungata stagnazione economica. Le fonti di crescita si limiterebbero al ruolo delle esportazioni e delle riforme nel senso dell’innovazione ed efficienza. Il rischio sarebbe aggravato dall’attuale sfida della diffusione delle nuove tecnologie, che non consente di restare in ritardo rispetto ai concorrenti, pena gravi perdite di competitività e reddito. Di fatto, non si tratta più di un Patto per la crescita ma solo per la stabilità.

Il rischio di pro-ciclicità dei vincoli sarebbe solo in parte attenuato dal mantenimento di salvaguardie nelle fasi di congiuntura negativa, che permettono scostamenti dal sentiero di riequilibrio. Ma il rischio potrebbe permanere dopo il 2027 quando la nuova flessibilità verrà eliminata. In quel periodo, pur in presenza di una bassa congiuntura il rispetto dei vincoli accentuerebbe le tendenze recessive. Parimenti, in presenza di una consistente ripresa congiunturale nel prossimo quadriennio non è prescritto che in funzione anticiclica si debba accelerare il rientro dagli squilibri mirando ad aumentare il saldo primario strutturale.

Dopo il periodo di aggiustamento i limiti sarebbero uguali per tutti, riproponendo un’apparente parità di vincoli a fronte del permanere di grandi disparità tra paesi nell’incidenza del debito, nella distanza dalla meta del 60% e nel potenziale di crescita. L’itinerario di aggiustamento fino al 2027 non porterà a pareggiare le condizioni di partenza per affrontare in stabilità il periodo successivo. Un’altra debolezza è data dal permanere della complessità dei calcoli. La stima del disavanzo strutturale è stata oggetto del contendere con la Commissione negli scorsi anni e probabilmente si riproporrà per i prossimi anni. Anche l’analisi di sostenibilità del debito, benché si basi su una metodologia approvata preliminarmente da tutti gli Stati, fornisce sempre adito a controversie nella sua applicazione. Il voler precisare in dettaglio i parametri limite anche nella fase di rientro sotto il 3% di deficit rende più intricato il percorso da programmare e più imprevedibile il rispetto di tutti i vincoli nel periodo assegnato.

Nel complesso, la tempistica dell’aggiustamento è lasciata in parte alla decisione del governo, con possibilità di una sua concentrazione nell’ultima fase del periodo stabilito. Quanto più nel periodo si sfrutteranno i margini di flessibilità per rallentare l’aggiustamento, tanto maggiore sarà la sua severità nel periodo successivo, sempre che non intervengano eventi straordinari o fasi congiunturali negative che giustificano minore rigore. Questo insieme di condizioni induce a ritenere che è poco probabile che i paesi più distanti dall’obiettivo di debito riescano a raggiungerlo in presenza di grandi fluttuazioni cicliche. L’obiettivo, pertanto, finirà col rimanere come un punto di orientamento delle politiche piuttosto che un realistico traguardo da raggiungere. Tale orientamento servirebbe in ogni caso a conferire un certo grado di stabilità al sistema.

Sarà una stabilità precaria, o meglio un’instabilità controllata, perché questo tipo di coordinamento delle politiche di bilancio manca di leve per la stabilizzazione (macroeconomica) nelle fasi alterne del ciclo economico. L’assenza di un bilancio comune nel ruolo di stabilizzatore nelle varie fasi congiunturali pone a rischio qualsiasi progresso del Patto nel consolidamento del sistema. Né è fattibile un progresso in questa direzione in mancanza di una struttura federativa o confederativa dell’Ue. Il coordinamento tra Stati imperniato su vincoli sul saldo di bilancio, sul debito e sulla spesa primaria netta a carattere strutturale, invero, lascia intatta agli Stati l’autonomia nella composizione sia delle spese, sia delle entrate e nei tempi e modi di impostare l’aggiustamento. Il Patto in realtà si pone al limite di quanto sia possibile per un’unione senza uno stato.

Andare oltre comporta il passaggio a un governo politico unitario nella definizione della politica di bilancio, ovvero nelle decisioni di spesa e fiscali. Questo passaggio nella forma alternativa, federale o confederale, non è accettato da diversi paesi membri dell’eurosistema se non in campi molto ristretti o settoriali, come il mercato unico e la politica commerciale verso l’estero, e sempre in un rapporto cooperativo o in contraddittorio con le competenti autorità nazionali. Auspicare la produzione di beni “pubblici” a vantaggio di tutti i paesi, come nel caso della difesa e della lotta al cambiamento climatico non implica necessariamente l’esistenza di un bilancio comune, quanto una messa in comune di risorse nazionali per un programma specifico da cui tutti traggono vantaggio.

In altri termini, in linea con il principio di sussidiarietà si contribuisce insieme a realizzare un progetto di interesse comune che darà migliori risultati se svolto a livello comunitario. Anche col nuovo Patto l’Italia non rinuncia alla sua autonomia nelle scelte di bilancio, né di riflesso cessa di essere un fattore di potenziale instabilità del sistema. Si prospetta, in particolare, un periodo di serio risanamento della finanza pubblica, che imporrà scelte dure su entrambi i lati del bilancio e un freno ai disavanzi e all’accumulo di debito. Non potrebbe essere altrimenti a causa della dimensione degli squilibri che bisogna risanare: in breve, nell’anno in corso il disavanzo è programmato dal Governo al 3,7% del PIL, il saldo primario allo 0,3% e il debito al 141,4%.

Questi livelli peccano, inoltre, di un certo ottimismo non condiviso dall’unanimità degli esperti indipendenti alla luce dell’incerto contesto economico e politico all’esterno. Secondo le simulazioni effettuate da un gruppo di esperti del Bruegel Institute, l’applicazione dei limiti previsti dal nuovo Patto comporterebbe per l’Italia dover raggiungere un livello minimo del saldo primario del 3,3% del Pil, ovvero 70,5 miliardi, su un orizzonte di 7 anni, sempre nel caso di attuazione di altre riforme ed investimenti oltre quelli previsti nel Pnrr, oppure del 3,7% (79 miliardi) su un arco di 4 anni. Nel lungo periodo, abbassare il disavanzo complessivo annuo sotto 1,5% comporterebbe nel corso di 7 anni arrivare a un surplus primario di 4,6% per ottenere una riduzione media del deficit annuo di 0,61% del Pil. Per una comparazione, nell’ultima Nadef il surplus primario salirebbe dallo 0,3% PIL nel 2024 all’1,2% nel 2025 e 2% nel 2026.

Si è indiscutibilmente di fronte a una prospettiva di lunga austerità se il Patto fosse applicato in un contesto di bassa crescita e bassa inflazione. Nella storia economica dall’inizio del secolo il Paese non ha mai registrato surplus primari della dimensione ora richiesta, né è stato in grado di sostenere correzioni così prolungate del disavanzo. Ridurre il debito annualmente dell’1% del PIL per portarlo al 60% richiederebbe almeno 22 anni, assumendo che il Pil nominale resti al livello programmato per il 2024. Proprio su questa austerità si concentrano molte delle critiche di esperti e forze politiche, critiche peraltro che non resistono di fronte alla realtà degli squilibri e all’atteggiamento dei mercati finanziari.

Gli scostamenti sono, tuttavia, possibili nel caso in cui la congiuntura economica fosse sfavorevole, o se intervenissero shock idiosincratici, oppure se l’area dell’UE entrasse in un periodo di prolungata stagnazione. Il compito sarebbe altresì abbreviato qualora l’inflazione gonfiasse il Pil nominale, oppure la crescita reale superasse durevolmente il costo del debito, o se avvenissero entrambi. Alle critiche si può nondimeno replicare con una serie di domande. Se il Paese continuasse a registrare consistenti disavanzi di bilancio nell’illusione di dover sostenere la crescita, quale probabilità avrebbe di ottenere dai mercati i finanziamenti necessari e a costi abbordabili? Forse i finanziatori rimarrebbero indifferenti di fronte a nuove scalate del debito?

D’altronde, vi è forse certezza che la crescita futura dipenda necessariamente dalla spesa pubblica in deficit, allorquando nei passati decenni è stata indirizzata prevalentemente a impieghi di parte corrente e al welfare, mancando di innescare una crescita sostenibile? Quanto efficace è stato l’impulso dato dalle modeste riforme realizzate nel promuovere gli investimenti? Quali effetti ha avuto la compressione degli investimenti pubblici in parallelo alla onerosità del prelievo fiscale?

A tutti questi quesiti non si può che dare una risposta negativa, perché i dati smentiscono nel caso dell’Italia il preteso effetto keynesiano di spesa pubblica in deficit come sicuro moltiplicatore del reddito. Invero, è giunto il momento di parlar chiaro agli italiani per spiegare che il Paese non può più permettersi continui disavanzi, specialmente per spese poco feconde nell’innalzare il potenziale di crescita economica. Che è inevitabile ridurre l’incidenza del debito per non essere alla mercé dei mercati finanziari. Che le nuove regole sono il massimo che si può ottenere dalla solidarietà comunitaria, né saranno nella realtà così severe. E che bisogna rispettarle per accrescere la fiducia dei partner europei sulla serietà degli impegni presi dal Paese.



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