Se il Libano prosegue nella sua crisi interna, va in crisi la speranza di poter rifare il Levante come era, cosmopolita. Per questo lasciare la “sospensione” libanese in balia di se stessa è un errore che non può essere commesso. L’analisi di Riccardo Cristiano
La pace regionale è la bussola che conduce il vice premier e ministro degli esteri Antonio Tajani anche a Beirut. Lo spettro di un nuovo conflitto con Israele c’è, come c’è questa guerra “entro i limiti accettabili” che sta distruggendo l’agricoltura e molti villaggi, alcuni dei quali cristiani dai quali sono fuggiti tutti, nel sud del Libano. Il punto di discussione sarà certamente l’applicazione della risoluzione dell’Onu che pose termine alla guerra del 2006 tra Hezbollah e Israele e che imporrebbe a Hezbollah di ritirare i suoi miliziani a 30 kilometri dal confine, a nord del fiume Litani e alle parti di definire (come hanno quasi fatto) le persistenti dispute sui confini terrestri. Per riuscirci sta lavorando l’inviato della Casa Bianca, Amos Hochstein. L’Italia può fare di piu, forse, aiutando il consorzio a cui partecipa Eni a chiarire con Beirut i termini dell’accordo per cominciare subito le trivellazioni petrolifere nel Mediterraneo di cui tutti a Beirut hanno bisogno con urgenza. È questo che farebbe la differenza. Infatti per capire il Libano di oggi la prima cosa da fare è capire il cambio. Chi scrive non è sicuro di esserci riuscito, ma mi sembra che le cose stiano così.
Abituato per 30 anni al cambio fisso, un dollaro pari a 1500 lire libanesi, il Libano dal 2020 è entrato in una spirale fallimentare disastrosa di difficile decifrazione. Sì, decifrazione, perché lo Stato applica ancora il cambio di 15mila lire libanesi per un dollaro, quello su cui vengono parametrati gli stipendi. Il mercato invece ne usa un altro molto diverso: un dollaro qui vale più di 80mila lire libanesi. Per cui quando ti pagano, rispetto a prima, prendi dieci vecchi stipendi, ma quando vai al supermercato paghi più di 50 volte quello che pagavi. E molto spesso il tasso di cambio sale ulteriormente. Il dollaro è arrivato anche sopra le 100mila lire libanesi.
Ciò nonostante in Libano da ottobre 2022 c’è un governo in carica per il disbrigo degli affari correnti e un governatore della Banca del Libano ad interim, perché il Presidente della Repubblica ha concluso il suo mandato a ottobre 2022 ma il Parlamento non è stato ancora in grado di eleggere il nuovo. Qualche speranza di un accordo si era intravista qualche mese fa, quando si è trovato il modo di non lasciare anche l’esercito senza Capo, visto che il generale Aoun doveva andare in pensione e nessuno poteva designare il suo successore. Ma l’intesa di estendere il suo mandato per un anno non implicava altri accordi: è solo che con la guerra alle porta lasciare pure l’esercito senza una guida è parso troppo anche alla politica libanese e l’intesa, non unanime, si è trovata. Ma sul nuovo Presidente della Repubblica è notte fonda.
Il confessionalismo infatti ormai mostra tutta la sua inconsistenza. Il confessionalismo libanese vuole che Capo dello Stato sia un maronita, presidente del Consiglio dei ministri un sunnita, presidente della Camera uno sciita. Ma tutto questo ormai vuol dire poco. Il punto è se i candidati sono filo o anti-iraniani, cioè filo o anti-Hezbollah, il potente Partito di Dio che combatte le sue guerre in nome di tutto il Paese, al quale ha di fatto confiscato il diritto ad una politica nazionale di difesa. Ovvio che essere a favore o contro Hezbollah sia la discriminante decisiva. Ed Hezbollah, dopo aver eletto il precedente presidente, il maronita Michel Aoun, vuole il bis, per un uomo definito dai più fedele all’alleato di Hezbollah, Bashar al-Assad.
Siccome Hezbollah e i suoi alleati hanno perso la maggioranza parlamentare, il candidato di Hezbollah non riesce a trovare i voti necessari per essere eletto. E il presidente della Camera, stravolgendo il regolamento parlamentare, non convoca da mesi l’assemblea per votare, in attesa di un cedimento di qualche forza intermedia che però non sopraggiunge.
Così i libanesi, mentre guardano con preoccupazione a quanto accade a sud, da dove la popolazione che può fugge visto che da 100 giorni il fuoco tra Hezbollah e Israele è sempre intenso, scrutano con ancor maggiore attenzione il palazzo della Banca del Libano, da dove si annuncia come imminente la riforma delle riforme: i conti correnti in valuta straniera, che ognuno aveva visto che il dollaro aveva valore di valuta corrente nel Paese e tutti hanno un parente all’estero, rimangono sequestrati, inaccessibili da allora ai proprietari. Ma sembra che stia per giungere l’uniformazione dei cambi a 80mila lire libanesi: che sarebbe una borraccia piena d’acqua per chi sta morendo di sete. Ma si farà? Dicono di sì…
Ma pochi dicono perché il Libano sia finito in questo baratro economico. Una, solo l’ultima delle tante cause a carico di tutta la politica con pari demeriti, è stata la decisione del governo a guida Hezbollah di sfidare il Fondo Monetario e le istituzioni finanziarie internazionali sulle regole di prestiti da chiedere e debiti da restituire. Una sfida che fu festeggiata per strada dai militanti, convinti che per il Fondo stesse arrivando finalmente un osso duro. Ora il Fondo è chiamato al capezzale del Libano e dei libanesi da salvare, ma in assenza di un governatore della Banca del Libano nella pienezza dei suoi poteri nessuno si sente di firmare un accordo internazionale, e forse non potrebbe.
Ciò che è certo è che i diritti della “resistenza” non possono essere messi in discussione. Resistenza a cosa non è chiarissimo, dal momento che un anno fa Hezbollah ha dato il suo benestare a definire i confini marittimi con Israele visto che entrambi i Paesi avevano da affidare a consorzi internazionali l’estrazione di petrolio e gas recentemente scoperti al largo delle loro coste, e che da allora con la mediazione degli Stati Uniti sarebbero state quasi definiti i punti (piccoli) di non accordo anche sui confini terrestri tra i due Paesi. A latere c’è il piccolo problema di due fattorie che la Siria cedette precipitosamente al Libano ai tempi del ritiro israeliano dal Libano. Ora Israele certamente occupa quelle fattorie, ma ritiene di occuparle dalla Siria, non dal Libano. Dunque la politica di difesa di un Paese viene confiscata perché una milizia vuole resistere all’occupazione di due fattorie e di qualche curva sulla strada di confine? Pochi ci credono. Hezbollah serve ad altro. Il punto è che Hezbollah per molti ha trasformato il Libano in un involucro dello Stato che ha occupato. Infatti, a ben guardare, oggi è di Hezbollah l’unica milizia libanese in armi, è stretto alleato di Hezbollah da sempre il da sempre presidente della Camera, è stato prescelto da Hezbollah l’attuale presidente del Consiglio dei ministri, il miliardario sunnita Mikati. Il Capo dell’esercito viene considerato una personalità equidistante tra i blocchi, un possibile nuovo Presidente della Repubblica, ma per ora la sua equidistanza non soddisfa Hezbollah, che rimane dell’idea che il suo candidato sia il nome giusto.
In tutto questo va detto che risalta il fallimento complessivo della classe dirigente libanese, saldatasi in un patto corruttivo che ha dissanguato le casse dello Stato, portato la Banca del Libano, governata anch’essa da un maronita intoccabile per 30 anni, al centro di uno scandalo internazionale, con mandati a comparire in Francia e non solo. Nessuno può dire “io non c’ero”, visto che i governi del profondo rosso erano di unità nazionale. Hezbollah vi ha aggiunto l’errore finale della “sfida” a un sistema internazionale che in realtà troppo aveva già sopportato delle opacità libanesi.
Ma con una guerra “sospesa” ai confini, con una Presidenza della Repubblica “sospesa” tra le dispute dei due blocchi, con una Banca del Libano “sospesa” nell’attesa di un qualcuno che possa nominare il suo governatore, i libanesi hanno scoperto che vivono, o sopravvivono, in uno Stato “sospeso”, di cui è difficile che sentano la nostalgia per come era, per quello a cui gli opposti schieramenti lo avevano con convergente famelicità ridotto. Ma il Libano, oltre a questo, è stato tanto per il mondo arabo: è stato il Paese della libera stampa, dell’editoria di qualità, del turismo, dell’economia non statale, dell’istruzione d’eccellenza, scolastica e universitaria.
Se tutto questo va in crisi, come è in crisi gravissima, va in crisi la speranza di poter rifare il Levante come era, cosmopolita. Per questo lasciare la “sospensione” libanese in balia di se stessa è un errore che non può essere commesso, ma ogni riforma dovrebbe partire da una riforma della politica, cioè dei partiti, che non possono rimanere potentati tribal-confessionali in mano alle grandi famiglie feudali, ma devono diventare partiti di destra, di centro, di sinistra, che rispondono ai loro elettori, non che premiano i sudditi correligionari. E sarebbe urgente, perché prolungandosi l’attesa i libanesi potrebbero convincersi che questo Stato non serve a niente. E guardando con gli occhi dell’oggi sarebbe pure difficile dare loro torto. L’inutilità di uno Stato e di un governo, è questa la strana, inquietante lezione che ogni politico in visita può apprendere a Beirut. E dietro purtroppo vi può scorgere tanto malaffare e poco altro, oltre all’eterna capacità dell’uomo di adattarsi a tutto.