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Un nuovo rinascimento per l’IA, non a caso in Italia. Scrive Paolo Benanti

Di Paolo Benanti

È fondamentale mettere l’uomo al centro e sviluppare un modello di riscoperta dell’umano e del suo valore nella relazione con le macchine. L’analisi di Paolo Benanti, professore straordinario della facoltà di Teologia presso la Pontificia università gregoriana e nuovo presidente della commissione AI per l’informazione

L’Intelligenza Artificiale, o meglio, le intelligenze artificiali sono una famiglia di tecnologie molto diverse tra di loro con applicazioni distinte. L’utilizzo del termine al plurale è giustificato anche alla luce dell’AI Act, nel quale si considera come tema centrale non la tecnologia in sé ma gli effetti che questa ha sulla società civile.

In occasione del G7 a guida italiana, che tra i principali temi mette al centro proprio l’intelligenza artificiale e le sue applicazioni, è necessario soffermarsi sui possibili effetti sociali di questa tecnologia, che si possono suddividere in tre diversi ambiti: le potenzialità della ricerca scientifica per l’innovazione; l’impatto sul mondo del lavoro; l’impatto sociale sulla formazione dell’opinione pubblica e sulla coesione sociale.

Per quanto riguarda il primo elemento, evidentemente la ricerca scientifica necessita di questi strumenti tecnologici, come ci ha dimostrato la pandemia. Ed è solo grazie alla condivisione dei dati digitali e all’utilizzo di questi nuovi algoritmi, infatti, che l’Italia può pensare di rientrare nelle sfide globali mantenendosi così ancora competitiva a livello mondiale. Sul fronte degli impatti sul mondo del lavoro è evidente che queste tecnologie avranno un’influenza maggiore su una determinata fascia di impieghi che, normalmente, appartengono alla cosiddetta classe media.

Tuttavia, l’impatto lavorativo su una certa classe sociale deve essere controbilanciato dalla crisi demografica, per cui se da un lato è vero che si verificherà probabilmente una perdita di posti di lavoro, dall’altro è altresì vero che con i numeri demografici del nostro Paese – una nazione in cui in quaranta province ci sono più pensionati che lavoratori – se si vuole mantenere la competitività è necessario aumentare la produttività dei singoli, e anche su questo fronte c’è bisogno dell’intelligenza artificiale.

Infine, sull’utilizzo dello spazio pubblico, soprattutto in relazione alla formazione dell’opinione pubblica, si registra un forte rischio. Infatti, gli strumenti tecnologici applicati alle piattaforme sociali e ai mezzi di comunicazione di massa possono di fatto cambiare la percezione dell’opinione pubblica, diffondendo disinformazione o informazioni inesatte, distanti dai fatti realmente accaduti.

L’Italia è un Paese con una lunghissima tradizione umanistica, e proprio perché la questione dell’intelligenza artificiale non ha a che fare solo con la tecnica o con le frontiere della tecnologia, ma anche e soprattutto con la necessità di rendere queste tecnologie compatibili con la coesistenza sociale, ecco che per l’Italia si apre un ruolo profondamente sintonico con la sua tradizione passata. L’obiettivo è mettere l’uomo al centro e sviluppare così un modello, che potrebbe essere considerato rinascimentale, di riscoperta dell’umano e del suo valore nella relazione con le macchine.

L’idea è di inserire dei guard rail etici alla macchina facendo riferimento all’algoretica, cioè un’etica computata dagli uomini ma che a questo punto diventi computabile dalle macchine stesse. Affiancare etica e tecnologia per un’intelligenza artificiale che ponga sempre al centro l’uomo e sia al servizio di un autentico sviluppo. Ma servono nuovi criteri, categorie e linguaggi.

L’Italia è al lavoro per trovarli, specialmente con la presidenza del G7, partendo dall’Hiroshima AI process e cercando soluzioni innovative per sfruttare al meglio le potenzialità della tecnologia, senza dimenticare i suoi rischi. Se la società civile saprà porsi come ente intermedio di questo processo, sarà più facile portarlo a termine.

(Articolo pubblicato su Formiche 198)

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